

Pene d'onor perduto di Latella-Zorro e altri nuovi piccoli scandali di 'genitalità' a teatro
14.02.2025
" />
‘Darwin, Nevada’, in scena sino al 16 febbraio al Piccolo Teatro Strehler di Milano e poi in tournèe sino a fine marzo (per date e località consultare il sito della casa di produzione Jolefilm), è un bello spettacolo di Marco Paolini, ma anche qualcosa di più, anzi molto di più.
È la dimostrazione pratica, onesta ed inconfutabile della teoria, formulata dal Darwin in questione, riguardante l’evoluzione delle specie vegetali e animali secondo una selezione naturale che agisce sulla variabilità dei caratteri ereditari, e che studia la loro diversificazione e moltiplicazione per discendenza da un antenato comune.
Più semplicemente, nel caso di quella delicatissima specie costituita dai teatranti, dimostra come chi si ridefinisce attraverso i mutamenti, le diversificazioni, i cambi di rotta, chi insomma si evolve (forse al passo coi tempi e con i gusti del pubblico, o forse per un’urgenza creativa del tutto personale) è felicemente destinato a sopravvivere in mezzo a festanti salve di applausi.
Maestro indiscusso del teatro di narrazione, solitario cantore e paladino di una memoria storica, la nostra, sempre molto a rischio, ed anche inarrivabile esegeta dei misteri delle rotonde stradali del lombardo veneto, Marco Paolini in questo spettacolo è riuscito infatti a rinnovare il proprio linguaggio senza snaturarlo.
Ne ha conservato il carattere istruttivo e consolatorio, eppure ha saputo ammodernarlo, quale spazio di riflessione, a partire proprio dalla forma scenica. Complice Matthew Lenton, brillante regista britannico, che sdoppia abilmente i piani e i toni della narrazione, accompagnando con grazia il cambiamento di asse del racconto.
Altre voci, altre storie, si mescolano all’esposizione principale di Paolini, che con garbo si fa un pochino da parte, e con affetto osserva, scandisce, chiarisce. Risultando così più contemporaneo, più fruibile, più adatto, per l’appunto.