" /> Lassù tra le montagne si balla all'insegna della natura: Bolzano Danza fa 40 con un programma festoso e superlativo

Il rumore della pioggia, lo splendore di un talento

Il copione abbandonato sotto la poltrona da un’attrice di Christiane Jatahy che ha recitato partendo dalla platea 

 Un improvvido temporale, puntuale come le maledizioni sull’unico malcapitato ‘sbigliettatore’ della Biennale Teatro che faticava a leggere i QR code, ha colto alla sprovvista quasi tutti gli spettatori in coda per entrare al Teatro delle Tese nell’Arsenale di Venezia, la sera del 24 giugno, per la prima di ‘The Lingering now’ o ‘Le Present qui Déborde’ di Christiane Jatahy, più che meritato Leone d’Oro 2022. E’ di una tale potenza evocativa, il nuovo spettacolo dell’artista brasiliana e parigina d’adozione, che basterebbe il primo commento di un autentico ‘dramaholic’, che si era seduto in poltrona E6 bene inzuppato: “L’acquazzone l’avrà fatto arrivare apposta la Jatahy”. Un pensiero condiviso forse anche da altri spettatori, non solo della fila E, tra i tanti che, poco prima di far scrosciare gli applausi, hanno battuto a ritmo le dita dell’indice e del medio sull’avambraccio, invitati a imitare il rumore della pioggia, mentre sul grande schermo impallidiva il riverbero delle acque del rio degli Amazzoni. 

 Ecco la magia del teatro che si ripete: in questo presente che trabocca e sconfina e persiste, per tradurre un po’ il senso del titolo, il flagello della siccità non è altro che l’effetto dell’aridità che domina nei nostri cuori occidentali ricchi. Eppure, per 120 minuti questa Odissea contemporanea ricostruita con un linguaggio a cavallo tra cinema-documentario e teatro-happening fa straordinariamente vivere ai fortunati convenuti, pur nella proverbiale opulenza turistica veneziana, le vite dei migranti che la raccontano: coinvolge e travolge tutti, fa piangere e apre le menti all’indignazione ma fa anche ridere e ballare, invita a riflettere sull’esistenza e però pure a prendere atto dell’emergenza politica, ci obbliga a soffrire per qualche attimo con le persone di quei Paesi che fanno cambiare canale quando si guarda il telegiornale, Palestina, Siria, Iran, Sudafrica e Brasile. 

 Che altro dire? Chapeau. ‘Chris’, così chiamano la Jahaty i ragazzi della sua compagnia, ha fatto centro di nuovo, confermando che quel suo talento a 24 carati è ancora puro, nonostante il successo. Stavolta si è messa in gioco in prima persona, ha parlato anche di sé e della sua storia di famiglia, provando anche così a farci annullare le distanze dalla realtà di questo scomodo racconto di odissee dei migranti. Come nella profezia di Tiresia che un indios rilegge sul finale, ‘Chris’ pianta in terra idealmente il suo remo. Il viandante in platea non può non confondere quell’asta di legno con il ventilabro che le fa separare così bene il grano del teatro da tutta la pula che vola intorno, persino da un perdonabile inciampo in Lars Von Trier per il precedente spettacolo “Entre chien et loup”.   

(Nella foto il copione abbandonato sotto la poltrona da un’attrice che ha recitato in platea) 

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