Il dramma del drammaturgo che sale in taxi per andare a teatro fuori orario e deve rispondere alla domanda: ma che lavoro fa?
10.12.2024
Una gigantesta 'wunderkammer' della fragilità
Come si usa dire di questi tempi, conosco un posto, stavolta però non al di là dell’arcobaleno, soltanto poco oltre le nostre montagne, davvero un po’ speciale: Lione.
Sebbene meritasse il titolo di Ville Lumière per antonomasia, visto che i fratelloni che ci hanno regalato il Cinema (grazie, grazie, grazie) sono nati proprio qui, ed anche per la tradizionale ‘Fete de lumières’ che la anima nei prossimi giorni, Lione è rimasta sempre un po’ defilata rispetto alla scintillante cugina capitale.
In realtà è una città intrigante, soprattutto vista la varietà di spunti e stimoli culturali davvero poco ovvi che sa offrire, prime fra tutte le sue Biennali, d’Arte e di Danza. Questo era l’anno dell’Arte e la cura è stata affidata, con grande intelligenza, a Sam Bardouil e Till Fellrath, che si sono inventati ‘Manifesto of Fragility’, un’edizione che già dal titolo non lascia spazio a bellurie intellettualistiche da salotto né a polemiche sensazionalistiche che paiono orchestrate ad arte (dai galleristi). Proietta invece il visitatore nelle acque gelide della nostra dura, perfino un pochino spaventosa contemporaneità, ma non per umiliarlo attraverso la cinica esaltazione della sua miserevole inadeguatezza. Al contrario, con un pregevole cambio di prospettiva, questa presa di coscienza della nostra ineluttabile vulnerabilità, così esacerbata dalla complessità di questi tempi, viene indicata come il fondamento di un’emancipazione, forse unica e sicuramente vera possibilità di un cambiamento.
Peraltro il prestigioso duo Bardouil/Fellrath, fondatore nel 2009 di Art Reoriented (piattaforma curatoriale dagli intenti ben esplicitati già nel nome), si è distinto negli anni per un lavoro costante e puntiglioso che mira da una parte a spostare con aggraziata fermezza l’asse dell’attenzione culturale, con largo anticipo rispetto ai movimenti dell’ultima ora, e dall’altra a restituire le esposizioni all’accessibilità del pubblico, piuttosto che a perimetrarle a misura dell’angusta torre d’avorio del “Mondo dell’Arte”.
E dunque nei tre percorsi concentrici in cui si articola la loro Biennale, il tema della fragilità si sviluppa lungo una traiettoria di grande chiarezza e verità. Così le tematiche sociali più calde del dibattito attuale sono rinarrate attraverso “Les nombreuses vies et morts de Louise Brunet” nel segmento a lei dedicato, mentre l’urgenza di risposte al catastrofismo immanente viene ridefinita nella sezione intitolata “Un monde d’une promesse infinie”, che mescola epoche ed artisti, conosciuti o rimasti anonimi, a dimostrazione del sempiterno potere della resilienza. A fare da trait d’union tra le due, la raffinatissima esposizione “Beyrouth et le Golden Sixties”, che illustra e racconta il fermento artistico della capitale libanese nel periodo tra l’indipendenza dal mandato francese e l’inizio della guerra civile, per poi concludersi con un’installazione video dedicata alla terribile esplosione del 2020.
L’interazione poi con i luoghi più disparati della città, sempre con grande attenzione rispetto per il suo passato industriale ed operaio, e la cura elegante e precisa dei vari allestimenti, fanno di Lione una sorta di gigantesca wunderkammer, a riprova della qualità di questa Biennale e dei suoi curatori, che forse proprio per questo non rientrano nella Power 100 di Art Review. Si sa, le voci fuori dal coro difficilmente finiscono in classifica, ma sono sempre le più interessanti.