Il dramma del drammaturgo che sale in taxi per andare a teatro fuori orario e deve rispondere alla domanda: ma che lavoro fa?
10.12.2024
Basta con il teatro impegnato placebo del sistema, dice Rau: bisogna riscoprire lo scandalo della bellezza e resistere
Non facciamoci distrarre se in Italia la meglio gioventù che fu dello spettacolo impegnato si può crogiolare ancora piacevolmente nel canto della nostalgia per Enrico Berlinguer e il popolo comunista degli anni Settanta, discutendo se non fosse meglio la bella sfilata da reduci nel corteo neo-trotzkista del ‘Sol dell’Avvenire’.
Nel resto dell’Europa che ci aspetta si fanno i conti più apertamente con le ‘democrature’ sovraniste e i primi riflessi di quello che appare un tentativo evidente di soffocamento della libertà culturale. Perciò ha un alto valore aggiunto il nuovo meeting a Bratislava del progetto RESISTANCE NOW!, a cui ha dato vita quest’estate Milo Rau in occasione delle Wiener Festwochen - Libera Repubblica di Vienna.
La serie di convegni militanti farà tappa il 16 e 17 novembre proprio nel Central European Forum della capitale slovacca, dove il regime del ‘populista di sinistra’ filo-Putin di Robert Fico ha ingaggiato da mesi uno scontro frontale con gli artisti. Alcuni esperti e testimoni di varie parti d’Europa esploreranno il potere della disinformazione - dalla radio e dalla televisione degli inizi ai social media di oggi - e i legami tra l'inganno, la paura e il crollo della fiducia.
A seguire, si replica direttamente a Strasburgo, in conclusione dei dieci giorni con Milo Rau che dal 21 novembre organizza il Teatro Maillon, ‘Polo europeo di creazione’ del ministero della Cultura francese. RN! è previsto per sabato 30, alle 18.30 e tra gli invitati Rau si porterà da Bratislava anche il musicista ed ex direttore del Teatro Nazionale Slovacco Matej Drlička.
’Se si inizia a misurare il lavoro degli esperti in base alla conformità politica, la società democratica e con essa la libertà artistica muore’, ha scritto Milo Rau in una lettera aperta al ministro della cultura slovacco dopo il licenziamento di Matej Drlička, liquidato dalla guida del Teatro Nazionale perché non abbastanza ‘nazionalista’ e troppo ‘attivista’.
‘Sentivo il bisogno di entrare in contatto con altri artisti’, ha spiegato a proposito di RN! Rau. ‘In altre parole: volevo sapere concretamente a quali attacchi sono sottoposti gli artisti. Perché l'impotenza di ognuno di noi è proprio una cosa: non uniamo le nostre battaglie, ma le conduciamo per sé, in una solitudine eroica, se si vuole. Ma, per dirla semplicemente, abbiamo bisogno di un’Internazionale di combattenti. Questo è ciò che chiedo qui: per combattere il nazionalismo, dobbiamo connetterci a livello globale, abbiamo bisogno di alleanze globali’.
Non è una novità l’impegno militante del regista svizzero-tedesco, ma è particolarmente interessante vedere le reazioni così diverse che questo nuovo appello sta riscuotendo a seconda delle aree di provenienza degli artisti e degli intellettuali coinvolti fino ad oggi in RESISTANCE NOW!
Certo è difficile che possiamo veder schierarsi in prima fila, per una svolta neo-militante della cultura, registi e artisti di casa nei 'teatroni', pieni di impegni e di quattrini, che vivono nella bambagia di un intrattenimento istituzionale che ammette giusto quel pizzico d'impegno e tanto, tanto woke.
L’Italia, del resto, è in Europa un caso di scuola, dove di fatto proprio gli eredi diretti del Pci e della sinistra democristiana hanno diretto la svolta privatistica e di marketing nel mondo dello spettacolo pubblico, passando con gran disinvoltura dall’utopia di un ‘socialismo diverso’ a un generico progressismo di facciata, organico alla società neo-liberale economicista di scuola anglosassone.
Ma questo invito alla 'resistenza attiva qui e ora' taglia abbastanza trasversalmente anche i Paesi guida del teatro artistico e della danza contemporanea europei, per esempio tutta l’area belga e germanofona. Persino all’interno del laboratorio che Rau ha animato per anni, l’NTGent, si possono notare diversi pesi e diverse sfumature.
Per esempio, come si è visto il 14 e 15 novembre a Milano, nell’appuntamento organizzato da Zona K per ‘The Making of Berlin’, Yves Degryse e il collettivo Berlin proseguono sulla linea di una sorta di post-teatro documentario impegnato ma tendenzialmente quasi al confine con l’intrattenimento.
Altri che si erano spinti in una chiave quasi grottesca di nuovo teatro-teatro, per esempio Luanda Casella, artista associato all’NTGent (un suo strepitoso ‘Elektra’ in salsa queer è stato portato in Italia quest'estate da Biennale Teatro), cominciano apertamente ad interrogarsi sul senso di quello che molti liquidano come ‘divertissment borghese woke’.
Lo ha detto la stessa Casella aprendo il 37mo Congresso mondiale dell'International Theatre Institut, che si è tenuto nella seconda metà di settembre nella 'sua' Anversa, in uno speech - davvero polemico e creativo, tutto giocato sull’elogio dell’impurità - intitolato ‘Hijacked Imagination & The Aesthetics of Speculation’, che si potrebbe tradurre con: ‘l’immaginazione dirottata e l’estetica della speculazione’.
Ancora più esplicito contro l’assetto attuale dell’intrattenimento progressista tiepido e leggero che va tanto di moda per esempio in Italia, è stato l’intervento d’apertura di Rau allo stesso ultimo congresso ITI, intitolato: ‘HOW TO RESIST - or why the only answer to nationalism is global and diverse’, ovvero COME RESISTERE - perché l’unica risposta al nazionalismo è globale e diversa.
In una successiva occasione, il 6 novembre, in un Discorso di apertura al Praga Crossroads Festival, nel Teatro nazionale della Repubblica Ceca, Rau si è soffermato a spiegare meglio il senso della sua posizione attuale.
IL TEATRO COME FORMA E RESISTENZA
Estratti dall'intervento di Milo Rau al Congresso dell'Iti ad Anversa, il 19 settembre: la versione integrale è online, una prima traduzione italiana è stata pubblicata in glistatigenerali.com
Esposto in prima battuta il quadro generale delle situazioni più critiche per il teatro e la cultura nella Mitteleuropa, dalla Slovacchia all’Ungheria di Orban e accennato al rischio che l’Austria stessa, dopo che l’estrema destra ha fatto il pieno di consensi, possa diventare un regime, Rau entra così nel merito della questione economica del teatro (le sottolineature sono nostre):
Come tutti sappiamo, parlare di arte significa parlare di soldi. Ricordo che nel 2019 – prima che mi trasferissi a Vienna e fossi ancora direttore artistico del NTGent, a circa un’ora di macchina da qui, quanto Bratislava è vicina a Vienna – abbiamo manifestato contro i tagli al bilancio del governo fiammingo, allora (e tuttora, tra l’altro) determinato dal partito conservatore di destra NVA. Lo sciopero, accompagnato da numerosi appelli, non ebbe alcun effetto.
Quando durante il Covid scrivemmo il nostro programma artistico per i cinque anni successivi, lo facemmo nell’ambito di un budget culturale già ridotto. Metaforicamente parlando, il processo di assegnazione delle sovvenzioni è stato come la distribuzione di cibo dopo una catastrofe naturale: le istituzioni e le compagnie indipendenti sono state gettate insieme in una piscina, che a sua volta aveva troppo poco denaro a disposizione.
Chi prima arriva, meglio alloggia: secondo la consueta moda neoliberale, il problema reale – ovvero un ammontare troppo basso di sovvenzioni – è stato tradotto in un conflitto competitivo. Mentre parliamo, un processo simile è in corso nei Paesi Bassi e in Germania e, come tutti sapete, i tagli alla cultura non sono altro che l’inizio della sua censura.
Ricordo gli anni ’80, quando è emersa la dottrina neoliberista: (…) la razionalizzazione delle istituzioni artistiche ha portato alla distruzione dell’arte stessa, la sua fondamentale opportunità di sperimentazione.
A partire dagli anni Novanta sono state create o ristabilite molte strutture globali. È emersa una rete internazionale di tournée, una vivace scena indipendente, quello che il compianto Hans-This Lehmann ha definito “teatro post-drammatico”: un teatro impegnato nella sperimentazione, nello scambio internazionale, nella ricerca di una forma globale – una sorta di secondo modernismo, di cui io stesso e il mio cosiddetto “realismo globale” siamo figli.
Quando il neoliberismo si è ripresentato verso la fine degli anni ’10, poco prima del Covid, ho pensato: Perché ancora? Durante i tagli al bilancio fiammingo di cui parlavo, è stato commissionato uno studio indipendente che ha esaminato il rapporto tra investimenti e profitti in tutti i settori – il settore culturale è risultato in testa con 8 euro di profitto per 1 euro di investimento. E non c’è bisogno di dirvi cosa succede a 1 euro investito nell’esercito.
Così, quando sono arrivati di nuovo i tagli al bilancio, ho capito che questa volta non si trattava di soldi, ma di politica. Si trattava della trasformazione della società, della rottura dei rapporti – tra la scena indipendente e le grandi case, tra i generi, i continenti, i diversi background artistici. (...)
In breve, siamo in un’epoca in cui certe illusioni liberali stanno per finire – o, come il teatro indipendente, stanno semplicemente scomparendo. Nell’Europa dell’Est il cosiddetto clear-cutting è quasi completo, qui in Occidente c’è il solito ritardo atlantico, ma entro la fine del decennio il lavoro sarà fatto anche qui dall’NVA in Belgio, dal “Partito della Libertà” in Olanda e da come si chiamano tutti.
Il mio amico ungherese Kornel Mundruzco ha messo in scena l’ultimo spettacolo della sua compagnia teatrale – “Parallax” – a Vienna la scorsa primavera perché a Budapest non era più possibile. Il Presidente Orban non ha vietato il suo lavoro come si faceva ai tempi del comunismo, ma ha semplicemente ritirato tutti i finanziamenti. Viviamo in un’epoca in cui non si combatte un’idea criticandola, ma privandola del sostegno finanziario.(…)
“Abbandonate ogni speranza, voi che entrate”: Quando Dante, guidato da Virgilio, entra nell’oltretomba all’inizio della “Divina Commedia”, questo famoso motto è impresso sopra la porta. Come sapete, Dante non aveva prenotato questo viaggio dell’orrore negli zombie degli inferi. Aveva smarrito la strada nella foresta e quindi ogni sentiero che portava fuori era quello giusto, anche se conduceva al regno dei morti.
Perciò chiedo anche a voi: abbandonate ogni speranza. Perché questa battaglia che stiamo conducendo è politica in un modo che non potrebbe essere più politico. I credenti qui sanno cosa significa “la seconda venuta” del Messia: l’apocalisse, la fine del mondo come lo conoscevamo. E “La seconda venuta” del neoliberismo (e del nazionalismo) significa lo stesso per la cultura: non si tratta di un progetto in più o in meno, ma del modo in cui vogliamo vivere.
(…) È una frase che dico sempre quando l’umore diventa troppo buono in riunioni come questa: L’unica cosa peggiore del realismo socialista è il realismo socialdemocratico. Ovviamente non mi riferisco alla socialdemocrazia come partito, ma al discorso – che anch’io faccio qui – che accetta l’iniquità del sistema ovunque tranne che nell’arte. O più precisamente:
Lo spazio sicuro del teatro, dove regnano la tolleranza e l’autoliberazione, è solo il rovescio (o la verità) di un sistema globale di asservimento e sfruttamento. E laddove il realismo socialista, per quanto esteticamente superficiale, lavorava ancora sull’utopia di un altro mondo, il realismo socialdemocratico si accontenta di ciò che di solito viene chiamato “impegno”: il placebo estetico o discorsivo della pratica reale, del cambiamento reale. Con la rivoluzione come oggetto di studio o di performance.
Per farmi capire bene: Considero il liberalismo aggiornato in senso socialdemocratico un modo politico del tutto giustificabile di affrontare l’oblio della storia e i limiti mentali degli esseri umani. Ma nell’arte, nel teatro, sul palcoscenico, è proprio l’antagonismo, l’impotenza, la dolcezza, ma anche la malvagità dell’uomo, delle relazioni umane, che deve distruggere ogni autostima morale ancora e ancora.
Nel teatro non ci deve essere il “firewall” della democrazia, nel teatro ci deve essere posto anche per il fascismo, la depravazione, la stupidità – tutto deve avere il suo posto. O in altre parole: cercando lo sconfinato, il globale nel nostro lavoro, non dovremmo fare mistero dei limiti posti dal momento storico, dalle nostre origini, dalla nostra natura e, in ultima analisi, dai nostri corpi.
Perché perché saremmo seduti qui insieme se non fossimo tutti, da soli, incompleti e indifesi. E se siamo onesti, alcuni dei miti illuminati di purezza morale e di lealtà verso l’ingiustizia subita non sono del tutto dissimili dai miti di destra che ho definito nazionalistici. Voglio quindi dichiarare guerra a qualsiasi purismo, a qualsiasi impegno che implichi il controllo.
(…) Elogio della bellezza. Oppure: la resistenza non ha forma, la resistenza è la forma
Ogni tragedia classica ha quattro atti, anche se la maggior parte delle persone crede che ne abbia cinque. Il che ci porta all’ultimo punto, forse il più importante, al deus ex machina: all’elogio della bellezza. Ho appena preso in giro il realismo socialdemocratico. Non fraintendetemi: questo non è un appello al realismo socialista, alla propaganda, all’agitprop e a una sorta di politica di facciata popolare.
Penso, come continuo a ripetere, che la bellezza e lo scandalo siano due sorelle separate alla nascita. Ma soprattutto, a differenza di tutti i realisti socialisti o fascisti, penso che la resistenza non abbia una forma, ma che sia una forma.
(…) Quello che voglio dire è che il teatro non deve essere politico; è politico comunque. Il teatro deve essere surreale, folle, allucinatorio, insopportabilmente contraddittorio. (…) Perché il teatro, come tutta l’arte, non ha mai un “messaggio” chiaro; è sempre ambiguo. Il teatro è quindi sempre inaffidabile: è un’istituzione che è stata costruita contro tutte le altre istituzioni – contro l’idea stessa di istituzione – e allo stesso tempo intende diventare l’istituzione ideale, la più democratica di tutte.
Ecco perché il teatro politico di cui parlo si pone tra tutti i fronti e pone domande fondamentali sul nostro modo di vivere insieme, sulle nostre convinzioni e su come rappresentiamo il mondo. Una cosa è mettere in scena uno spettacolo nella Mosca di oggi, un’altra è farlo in Palestina, in Italia, in Brasile, in Ungheria, nella Repubblica Democratica del Congo o in Austria.
È profondamente politico salire su un palcoscenico come essere umano. Perché c’è sempre una situazione politica o sociale a cui si reagisce, anche solo attraverso il pubblico, che proietta sul palco le proprie opinioni, speranze e traumi. Ricordo una tavola rotonda a Parigi qualche anno fa: Io criticavo il noioso karaoke classico europeo, l’eterna riproduzione dello stesso canone in continuazione.
Un artista iraniano mi interruppe e disse: “Mettere in scena Cechov a Teheran è una rivoluzione, significa libertà! Senza offesa per Cechov, per favore!”. E aveva ragione. Perché, come noi, intrappolati nella nostra cecità, dimentichiamo ripetutamente: la resistenza non ha forma, la resistenza è la forma – e ha un aspetto diverso ovunque.
Mentre parlavamo dell’ascesa della destra radicale ad Amsterdam qualche giorno fa, uno dei presenti si è presentato come slovacco e ha posto una domanda a Matej Drlicka: “Siamo stati troppo gentili? È per questo che abbiamo perso la lotta contro la destra radicale?”. Matej ha riflettuto un attimo e alla fine ha risposto: “Non c’è nulla di male nell’essere gentili. Dobbiamo difendere la nostra gentilezza. E alla fine li sconfiggeremo – con la forza dell’amore”.
DOPO LA FINE DELLA STORIA, UN MIRACOLO
(dal discorso a Praga del 6 novembre)
La citazione più famosa della tragedia greca è: Soffrire e imparare, da "Oresteia" di Eschilo. Ma oggi, mentre il nazionalismo, la guerra, la discordia, la meschinità, la paura e la censura stanno ancora una volta tornando in tutta Europa, sorge la domanda: cosa abbiamo imparato dal 1945 e dal 1989? Il cosiddetto sogno europeo era semplicemente quel sonno della ragione che produce mostri?
Che sia 1945 o 1989: penso che solo comprendendo, abbracciando il passato possiamo reclamare il futuro. Non in parole vuote, non con bei discorsi, ma in ogni incontro, in ogni atto artistico, in ogni festival e, naturalmente, in ogni elezione. "Dobbiamo trovare immagini chiare per idee vaghe", è una famosa citazione di Godard, e aggiungerei: abbiamo bisogno di azioni chiare, abbiamo bisogno di solidarietà diretta. Abbiamo bisogno di solidarietà con tutti coloro che sono già diventati vittime del nuovo fascismo.
So che l'attivismo può essere vuoto come le parole. So che il teatro è soprattutto un luogo di dubbio e un luogo di verità, un luogo dove ammettiamo i nostri fallimenti, dove possiamo ridere e piangere - su noi stessi, sulle nostre contraddizioni, sui nostri errori, sulle nostre illusioni.
Ma il teatro è anche un luogo di rivolta, di sensibilità morale radicale. Ogni spettacolo, per quanto malinconico e assurdo, triste e divertente possa essere, è un luogo in cui passato e futuro si incontrano, disperazione e speranza. O, nelle parole di un altro ceco, Milos Forman, che ha detto di Václav Havel: “Se un drammaturgo riesce a farci ridere o piangere, o entrambi, è un artista. Ma se un drammaturgo riesce a orchestrare il rovesciamento di una dittatura senza sparare un solo proiettile, è un miracolo".
Facciamo in modo che questo miracolo accada di nuovo. Iniziamo una seconda Rivoluzione Dolce. Europa, democrazia, libertà, diversità: diamo un significato a queste parole. Perché altrimenti, presto non saranno altro che poesia del passato.