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Che viaggio tempestoso, rincorrendo Adès-Lepage dal quart'ordine alla Scala

 Chissà se una decina d’anni fa, ancora un po’ incoscienti ecologicamente da salire senza rimorsi sugli aerei, avremmo potuto sobbarcarci un viaggio di dodici ore per aria, più o meno, e altre due sui pullman, per arrivare fin quasi a 6mila e 500 km lontano, subito fuori Québec city, Canada: e, per l’esattezza, dentro l’anfiteatro della riserva Wendake, nella cornice naturale vicino al fiume St. Charles, dove è stato ricostruito un villaggio dei nativi Huroni, come i conquistatori francesi chiamavano la tribù dei Wendat. Per un mese, proprio là 'into the wild', Robert Lepage ha voluto mettere in scena ‘La Tempesta’ shakespeariana affiancando al cast della sua ensemble, Ex Machina, alcuni degli ultimi indiani della locale progenie. Ma fortunatamente, nel 2011, non eravamo ancora così dramaholic, amen. Del resto, sono tanti gli appuntamenti clamorosi firmati da questo canadese eclettico e visionario, che abbiamo mancato: per dirne un altro soltanto, non strettamente teatrale, degli stessi anni e nella stessa lontana capitale della fu Nouvelle France, l’installazione ‘Aurora borealis’, con 574 staffe a luci Led che illuminavano 81 silos del porto vecchio di Québec city, sfida tecno-artistica addirittura al più grande spettacolo della natura.   

 Di Tempeste, e di regie su Shakespeare, ne ha fatte parecchie in questi anni di straordinario successo l’ultroneo ormai 65enne Lepage, uno che è passato oltre a velocità esagerata, come se niente fosse, da Wagner al Metropolitan di New York a Kà del Cirque du Soleil, da Peter Gabriel alla tournée del balletto ‘Eonnogata’ in Giappone, dal circo alla lirica, dalla poesia alle tecnologie, saltando tra cinque-sei lingue che parla e comprende, e altre otto-nove che legge. Basta cliccare sul suo curriculum per rendersi conto del livello del personaggio. Non si poteva mancare perciò l’appuntamento a Milano con la ripresa di ‘The Tempest’ alla Scala, seconda opera di musica contemporanea scritta, nel 2003, dall’inglese Thomas Adès, con libretto rielaborato appositamente dalla drammaturga australiana Meredith Oakes, e la regia dell’allestimento del 2012 a New York, firmato appunto da Lepage. Nonostante sia noto che musicologi e melomani apprezzino le regie teatrali più tradizionali, arrivava pure l'eco del rinnovato conforto dei recensori specializzati. Così, dopo aver letto, fresco di messa online, che dal lavoro di Lepage & Co. ‘ne scaturisce uno spettacolo metateatrale esteticamente impattante e avvincente, sorretto da una recitazione sicura, da un notevole dinamismo sia dei solisti che delle masse, da trovate di sicura presa sugli spettatori, impreziosito da seducenti giochi d’ombra’ (Stefano Balbiani), siamo entrati buoni ultimi alla Scala. Sicuri che sarebbe stata un’emozione da non dimenticare ma, appunto, buoni ultimi, maledizione!, lassù al piano quarto, con la visuale tanto di sghimbescio, e per giunta la sera in cui era acciaccato dall’influenza proprio il tenore Frédéric Antoun, travestito da selvaggio Caliban, in una versione in cui questo personaggio ha un peso significativo… 

 Nelle foto di Brescia/Amisano - Teatro alla Scala, ’The Tempest’ di Adès-Lepage a Milano (novembre 2022)

 Ora, giusto per riavvolgere il nastro da capo, bisogna partire da una considerazione di fondo, a cui si giunge facilmente anche solo dopo aver visto ‘La Tempesta’ teatrale di Alessandro Serra (al Piccolo Teatro in questi giorni) piuttosto che una rilettura post-moderna che qualche anno fa Irina Brook portò alla Triennale di Milano. Come il quinto evangelo e tutti gli apocrifi (per non dire dei tre sinottici e del quarto giovanneo), viene tirato di qua e di là, con grande disinvoltura, anche quello che Jan Lauwers di Need company chiamerebbe ‘Billy’s Gospel’. In ogni caso, si può ben dire che la Buona Novella di William Shakespeare ha ne ‘La Tempesta’ il suo testo chiave. Su questo lo studioso Piero Boitani, allievo prediletto di uno dei più grandi filologi shakesperiani, Giorgio Melchiori, ha costruito un intero saggio, ‘Il Vangelo secondo Shakespeare’ (edizioni il Mulino, 2009), dove il capitolo chiave, ‘Epifania’, è dedicato ovviamente all’ultima commedia della meraviglia e della misericordia. Conclude Boitani: ‘l’invenzione di questo Vangelo - la sua composizione di parabole, immagini, forme, illusioni, parole - è una delle eredità più grandi che il mago, demiurgo, poeta, creatore William Shakespeare ci abbia lasciato’.

 In questo caso specifico, Adès con la Oakes all’inizio del Terzo Millennio, quando concepiscono il libretto di ‘The Tempest’, hanno compattato il racconto di 400 anni prima e modificato il segno di alcuni personaggi, per non dire dei tagli veri e propri al testo, notevoli sui passi più celebri, versi che da secoli finiscono addirittura come didascalie dei quadri: non c’è Ariel con le onde furiose del mare di ‘Come unto these yellow sands...’; restano senza aggettivi i palazzi che scompariranno, e c’è poco altro del monologo apocalittico sulla ‘materia dei sogni’ (vado a memoria, ma mi pare che Adès-Oakes abbiano fatto svanire anche quella); dimenticato nel cassetto il sovversivo prologo, e lo notiamo solo per invitare, tra parentesi, i malcapitati lettori a non perdere, a proposito di classi sociali e ipocrisia, l’ultimo film di Ruben Östlund, ‘Triangle of Sadness’; tagliato pure l’epilogo di Prospero, il finale va tutto a Caliban, che è rimasto solo sull’isola, con la virtuosissima voce di Ariel che canticchia invisibile ‘a…i… e…’ 

 Così è in questa ‘The Tempest’, ma sarebbe falsante non accogliere la fondamentale premessa che trattasi di un’opera di oggi, di musica contemporanea, di un gioiello modernissimo, elegante e, detto profanamente, man mano più brillante. Alla traduzione visiva del Vangelo di Billy ‘according to Thomas e Meredith’ e alla valorizzazione della musica di Adès, contribuisce straordinariamente la mirabile regia di Lepage: aldilà della trovata metateatrale di ambientare la storia in una riproduzione della Scala, Lepage si scatena fin dalla prima immagine in una gioiosa concatenazione di trucchi, trovate, movimenti, contro-narrazioni, citazioni artistiche e circensi, con un equilibrio che i suoi collaboratori per la scenografia (Jasmine Catudal), i costumi (Kym Barrett), le luci (Michel Beaulieu) e le coreografie (Crystal Pite), i video (David Leclerc) e i movimenti acrobatici (Genévieve Bérubé), contribuiscono a mantenere quasi perfetto. Incantevole il raddoppio Ariel, che ha una controfigura acrobatica, ma sono pressoché indistinguibili, come la natura stessa ambivalente, fin dal significato del nome ebraico, Leone di Dio, di questo spirito soprannaturale, angelo e demiurgo. Così ben diretti, in scena girano tutti a dovere - e fa impressione notare che anche in questo caso i cantanti di musica contemporanea abbiano ben dimostrato di saper essere ottimi attori, con la voce e con il corpo, senza esagerare.

 In breve: standing ovation, senza sforzi, anche perché bisogna stare in piedi per vedere lo spettacolo da lassù, al palco 2 del quart’ordine alla Scala. Se si quotassero con dei simboli, alla fine, le emozioni dei dramaholic, questo è un viaggio che vale cinque ‘pere’.   

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