" /> Lassù tra le montagne si balla all'insegna della natura: Bolzano Danza fa 40 con un programma festoso e superlativo

Sì, la Danza è tutto un Post, facciamocene una ragione. Diario veneziano della Stra-Biennale McGregor 2025 (1)

'Coexistence' di Wang Le (foto Andrea Avezzù)

 Sì, la vita è tutto un post… E capita che sia finita anche la prima Stra-Biennale di Post-Danza del Post-Coreografo e Post-Direttore Wayne McGregor, al secondo mandato sempre più impegnato come ispiratore e organizzatore di una sorta di rincorsa della sua ‘disciplina’ performativa alla post-modernità e per così dire ‘alla danza arte totale’.  

 Le statistiche ufficiali parlano di un 18 per cento in più di pubblico, che s’impenna a più 26 sul cosiddetto segmento giovani, bella risposta concreta alla varietà e al grado di novità delle proposte scelte. Anche le ultime giornate sono state ricche e alquanto onnicomprensive, al limite della contraddittorietà. 

 McGregor si è guadagnato una meritata pausa, in attesa di un fittissimo autunno-inverno d'impegni a Londra e in giro per il mondo (1). Dicono i bene informati che a Venezia si conceda giusto il lusso di un bel cono di gelato mentre si sposta, per seguire ogni dettaglio della sua pienissima rassegna, camminando deciso da un sestriere all’altro.

E c’è da scommettere che, come gusti, punterà sui variegati.

 Tra l’altro, qualche buonanima gli avrà pur detto che arrivando verso Castello dal Palazzo della Biennale di Ca’ Giustinian, la via più veloce passa dal grande campo di Santa Maria Formosa per entrare in Calle Ruga Ciuffa, un nome che è tutto una storia e parla forse anche di bande di ‘gagiuffos’ del 1200.

Lì dove conveniva girare alla larga per la presenza di gaglioffi, oggi si ritrovano tanti golosi in quella che è considerata la miglior gelateria (niente nomi, per carità: ha già concesso la tessera sconto da veneziano al nostro infallibile scout), che propone gusti dedicati alla toponomastica della città. Accademia sarebbe il classico variegato all’amarena ma i ballerini vanno pazzi del più light Guglie, base yogurt e concentrato di frutte varie.         

 Sir Wayne, dopo il clamoroso kolossal neo-umanista al Palazzo del Cinema del Lido l’anno scorso, quest’anno si è limitato ad allestire un piccolo regalo in Arsenale, Sala d’Armi E, per una selezionata fetta di spettatori, invitati o così accorti da prenotare per tempo. Per alcuni giorni, venti persone alla volta, in quattro finestre orarie, potevano accedere all’esperienza di un’ora di viaggio con occhialini 3D al centro di una ‘new post-cinematic installation’ intitolata ‘On the Other Earth’. 

 Coprodotta con Hong Kong Ballet e girata parzialmente sull’eliporto di un grandioso albergo neocoloniale in Tsim Sha Tsui, Kowloon, era ispirata all’ultimo ‘Deepstaria’ dello stesso McGregor, dove con la computer-grafica comparivano magicamente le forme misteriose delle meduse che abitano la profondità degli oceani. 

 Il contributo ovviamente fondamentale di questo nuovo lavoro si legge alla seconda riga dei credits, ‘Ideazione e progettazione di estetica dell’interazione e tecnologie nVis 360 3D: Jeffrey Shaw, Sarah Kenderdine’. Shaw, australiano di Melbourne classe 1944, ha cominciato ad occuparsi d’installazioni cinematografiche particolari dagli anni Sessanta e presto è diventato una delle figure leader della new media art. Ha insegnato anche in Germania e vive ormai a Hong Kong, dove è stato invitato per mettere a punto nuovi Future Cinema Systems.

 Lavora ormai stabilmente con Sarah Kenderdine, singolare personaggio di formazione archeologo marittimo, esperta curatrice di musei e insegnante universitario di nuove tecnologie molto stimata. 

 Insieme hanno collaborato con artisti visivi e di ogni disciplina teatrale, per citare un solo esempio hanno messo a punto il sistema ReACTOR per ‘Fragmentation’ di Robert Le Page, che è una sorta di riproposta in tre parti dell’epico ‘Lipsynch’ di nove ore con 180 cambi di scena per solo 9 attori.

 ‘On the Other Earth’, nonostante l’apparato digitale ricchissimo e una serie di richiami alle forme più strane del precedente marino-spaziale, in realtà non ha affatto fagocitato la danza in favore dell’innovazione tecnologica. Alla fine non è sembrato soltanto un lusso ‘up to date’ e un contributo sofisticato alla ricerca di nuove forme della fruizione delle arti performative. 

 Paradossalmente questa installazione si è rivelata un piccolo gioiello dove la danza contemporanea si mostra nel modo più evidente, fin quasi a un’involontaria pedagogia, una sorta di passaggio siderale per la Post-Danza che riportava poi tutto, in modo così ammaliante, al punto di partenza, ai movimenti classici del balletto. 

 Gran merito va riconosciuto certamente alla bravura dei ballerini più maturi dello stesso studio McGregor, ormai quasi tutti magistrali, come si era capito nella edizione 2024 quando avevano affiancato i ragazzi di Biennale College per lo spettacolo finale. La prima citazione va, e non solo per ordine alfabetico, alla neozelandese Rebecca Bassett-Graham, con il suo caschetto biondo sopra un gran bel volto che malcela l’aria da guerriera norrena. Arrivata a Londra come free-lance già affermata nel 2013, nove anni fa è entrata stabilmente nello studio McGregor, e proprio da quest’anno Sir Wayne l’ha promossa assistente coreografo per le prove.

 Menzione dovuta anche per l’unico italiano del gruppo, Salvatore De Simone, napoletano che ha studiato a Milano al Teatro Carcano per poi lavorare in Germania fino alla selezione, nel 2021, per Biennale College, da cui poi il grande salto a Londra. 

 Per la cronaca funziona poi a meraviglia la contaminazione con i ballerini di Hong Kong, così diversi fisicamente, e così perfettamente diretti da Septime Webre, che firma anche la direzione artistica della performance. 

'On the Other Earth', in primo piano Rebecca Basset-Graham (foto Ravi Deprees)

 Una certa propensione culturale apertamente ‘neo-colonialista’ e la concretezza imprenditoriale contribuiscono a questa spiccata attenzione verso l’area orientale di McGregor, che anche nella dote di maieuta sorprende pescando, quasi alla fine di Biennale, un talento indiscutibile come Wang Le, uno dei più brillanti diplomati alla Beijing Dance Academy nel 2012, forte di varie esperienze come ballerino in Europa. Dal ’21 coreografo con studio a Pechino, ha già allestito una trentina di lavori e per Biennale College ha presentato l’incantevole ‘Co-existence’, lavoro di grande eleganza con forti riferimenti alla cultura e alla danza tradizionale cinesi. 

 Questo senza nulla togliere all’intera sezione che giustamente Biennale vanta come punto di forza del festival, i giovani danzatori e coreografi di Biennale College. Hanno lavorato duramente per presentare cinque lavori d’alto livello con altrettanti diversi approcci alla danza: da un cult post-modernista come ‘In C’ di Sasha Waltz alla forza radicale afro-europea di ‘The Remaning Silence’ di Anthony e Kel Matsena (autori anche di ‘The Herds’, singolare performance di teatro danza in pubblico con enormi pupazzi di leoni, elefanti e gorilla, che aveva anticipato il festival a giugno), fino alle nuove opere ‘AI’M’ di Tamara Fernando e Matthew Totaro, nonché appunto del citato Wang Le.

 E qui si potrebbe arrivare a riaprire un ventaglio di questioni fondamentali sulla vitalità straordinaria della danza contemporanea, che attrae tante attenzioni del settore economico per vari motivi, non ultimo la capacità di parlare anche al pubblico giovanile ormai quasi del tutto post-teatrale, ma è pur sempre una disciplina che si può presentare con quattro costumi, un impianto di diffusione musicale e sette-otto ragazzi a cachet zero. 

 Restano svariate altre querelle sottotraccia che si potevano ascoltare durante questa Biennale, tra cui la questione bruciante del rapporto con le nuove tecnologie. Anche questo divide nettamente in due il pubblico, con i giovani entusiasti e compresi, ma tante perplessità di chi continua a mantenere lo sguardo rivolto verso il passato e anche perciò si considera esperto.

L'esperienza visiva circolare di nVis 360 3D per 'On the Other Earth' (foto di Ravi Deprees)

NOTA 1: UN PO' DI 'CHROMA' ALLA SCALA

Nel 2026 arriverà a Milano per guidare qualche sera il prestigioso corpo di ballo scaligero nel suo ‘Chroma’ persino il nostro ‘sempre sia lodato’ Wayne McGregor (buon per lui se gli consigliano di far quattro passi fuori dal centro per trovare le gelaterie giuste!). 

 Bene, la serata è un trittico di gran nomi e la presentazione ufficiale sul sito recita: ‘Chroma’ esplora la drammaticità del corpo umano e la sua capacità di comunicare le emozioni e i pensieri più profondi, coreografia inventiva ed energica di McGregor, che 20 anni fa gli valse la nomina a resident choreographer al Royal Ballet (…); infine la potenza trascinante di ‘Minus 16’, uno dei più illustri manifesti dell’originalità di Ohad Naharin’. Risale al 1999 la prima assoluta di questo Naharin per Nederlands Dans Theater. Ah, in mezzo ci sarà ‘Dov’è la luna’ di Jean-Christophe Maillot creato nel 1994 per Ballets de Monte-Carlo.

 E’ comprensibile che sul palcoscenico più classico non arrivino troppe vere e proprie novità, ma forse l’istituzione lirica più ricca d’Italia e tra le più opulente del mondo, nella città ‘premium’ che si crede metropoli europea, uno spazio per la danza di oggi dovrebbe pure trovarlo.

Già, a parte la buona volontà di Umberto Angelini, direttore di Triennale Teatro, perché Milano non ha un grande teatro cittadino dedicato, come Parigi con il Les Abesses del Théâtre De la Ville

 E ancora perché alla Scala, ancora di recente, quando non si lucidano a nuovo vecchie e gloriose coreografie o si producono ex novo spettacoli di danza quasi imbarazzanti?

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