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09.10.2024
La carne, la danza e il diavolo nella società tecno-capitalista: del caso olimpico e non solo
Che un balletto potesse scatenare un tale putiferio, nessuno ci avrebbe scommesso sopra un centesimo. E invece è bastata un’immagine iconografica del ‘religiosamente scorretto’, tra Dioniso e l’Ultima Cena in salsa queer, a rovesciare sulla cerimonia inaugurale olimpica una valanga di critiche.
Con il passare dei giorni la questione estetica, e naturalmente anche etica, relativa alle immagini ritenute offensive e fin quasi sacrileghe nei confronti della tradizione cristiana, è assurta pian piano a una dimensione ideologica, storico-politica e addirittura antropologica.
E’ interessante prendere atto che le analisi sul significato in senso lato dello spettacolo, dopo le prime proteste un po’ sgangherate, si siano fatte sempre più stringenti. Una battuta a effetto, ‘La Francia dalla Grandeur alla Gendeur’ (titolo de ‘Il Fatto quotidiano’), mette bene a fuoco il taglio delle critiche, per l’approccio considerato troppo ‘woke’ e ‘gender-fluid’ della cerimonia.
La ministra ‘per la famiglia, la natalità e le pari opportunità’ Eugenia Roccella, in un articolo per ‘il Giornale’, ha proposto un denso ragionamento critico. Il primo punto amplifica e motiva l’obiezione sollevata subito da telecronisti e giornalisti sportivi, sul fatto che la meravigliosa costruzione kolossal dello spettacolo e la scelta dei barconi sulla Senna per presentare le squadre nazionali, alla fine, non avesse messo sufficientemente in luce i volti degli atleti. (Come se l’evento inaugurale olimpico in mondovisione, nel 2024, dovesse essere per forza una sorta di album delle figurine degli sportivi, non appunto uno spettacolo vero e proprio).
Per Roccella questa sotto-valutazione della componente olimpica e sportiva della cerimonia era conseguente a una precisa scelta ideologica, di utilizzare questo evento come una sorta di manifestazione di una nuova identità antropologica del mondo occidentale. Rifondazione che inevitabilmente muove dal rinnegare la tradizione greco-romana, prima ancora che l’intera cultura giudaico-cristiana (come reso evidente dal quadro ottavo, così caratterizzato dall’icona LGBT Barbara Butch, poi bersagliata con minacce e insulti dagli haters).
Tra parentesi, giova ricordare che, tra 2002 e 2004, quando numerose nazioni cattoliche, Italia in primis, volevano introdurre nella Costituzione della Unione Europea proprio le radici giudaico-cristiane del Vecchio Continente, a porre il veto furono i post-gaullisti di Francia, ancora tanto ‘républicains’, con Valéry Giscard D’Estaing.
Un altro significativo assunto della Roccella è che con la cerimonia pubblica, alla fine, Macron abbia voluto come sancire una vera e propria svolta ‘americanista’, da cui discende appunto anche l’appiattimento nei confronti dell’ideologia ‘woke’.
La sociologa Chiara Giaccardi, sul quotidiano cattolico ‘Avvenire’ che per primo aveva preso una dura posizione critica nei confronti della cerimonia olimpica parigina, considera l’inaugurazione addirittura ‘l’espressione del tecno-capitalismo che si presenta come una vera e propria religione’, un atto pubblico di ‘violenza simbolica che non ammette alternative’.
Complementare e non trascurabile l’osservazione introdotta nel commento di Antonio Socci su ‘Libero’, con una distinzione significativa tra l’autonomia dello spettacolo, che di per sé gode giustamente della massima libertà d’espressione, e le ben diverse responsabilità legate al contenuto di un evento promosso dalla committenza pubblica e statale, a maggior ragione trattandosi di una cerimonia d’impatto mondiale. Se è il potere di un Presidente di una nazione di primo piano a promuovere la satira anti-tradizionalista, si entra tout court nel campo della propaganda.
Hic Rhodus, hic salta. La questione riguarda, per estensione, una gran parte del mondo dello spettacolo e dell’arte in genere, più che mai in Italia dove un sistema di fatto pubblico (e politico) di committenze viene pure mascherato dietro società di natura semi-privatistica, pseudo-fondazioni o enti autonomi vari.
Non è dunque in discussione la bellezza o meno, per così dire, dei singoli spettacoli, ma il significato di valore che assumono le scelte di programmazione, più che mai in una rappresentazione ufficiale.
Venendo alle valutazioni di merito degli appassionati non c’è dubbio che, aldilà delle stupende e insolite cartoline da Parigi, questa inaugurazione queer abbia fatto ballare il mondo, con un impiego straordinario di ‘danseurs’ professionisti impegnati nel più ampio spettro di movimenti della danza contemporanea.
Si è vista con nettezza la mano dell’eclettica Maud Le Pladec, coreografa già così affermata da essere stata chiamata alla direzione, dal 2025, dello storico CCN-Ballet de Lorraine, uno dei centri francesi d’eccellenza. Di Le Pladec per Ballet de Lorraine in Italia è stato appena applaudito, a Tanz Bozen/Bolzano Danza, un magico e coloratissimo ‘Static Shot’.
L’intera costruzione coreografica di Maud Le Pladec per Parigi 2024, aldilà delle scene cosiddette queer di cui peraltro la danza è intrisa da sempre, ha mescolato senza problemi l’alto e il basso, come si diceva una volta, il pop e il cult, la migliore eredità dei grandi coreografi teatrali e i riferimenti alla contemporaneità in senso esteso, per esempio all’iconografia dei videogiochi, oltre che agli stili più inconsueti del ballo di strada.
Per quanto riguarda soprattutto l’innesco esplosivo all’ottavo quadro della cerimonia inaugurale, intitolato ‘Festivité’, per cui Le Pladec ha attinto a piene mani nella comunità LGBTQIA+, riunendo generi e figure quanto mai variopinti, non è andato in scena niente di diverso o di più ‘provocatorio’ di quanto siano abituati a vedere gli spettatori teatrali e della danza contemporanea, nelle sale tradizionali e più che mai durante i festival.
Al netto dell’obiezione di fondo, che non si può giudicare un evento pubblico del genere come uno spettacolo qualunque, nel merito della principale accusa occorre ricordare, en passant, il caso di Samuel Beckett, l’esempio contemporaneo per eccellenza di quanto sia equivocabile l’interpretazione, più che mai con la lente di lettura religiosa.
Non ci si riferisce quindi al celebre scontro con il filosofo Adorno sul significato ideologico di ‘Finale di partita’, quanto invece alle prime letture scandalizzate di ‘Aspettando Godot’, un testo in apparenza così post-nichilista eppure tanto intriso di riferimenti al cristianesimo da suscitare stroncature e scomuniche.
Giusto per ricordare un dettaglio chiave, spesso poi trascurato e/o tagliato in tante riproposte, Beckett pone in apertura, sotto a quell’albero spoglio così allusivo, un dialogo tra i protagonisti sui due ladroni crocifissi con Gesù Cristo - che l’autore irlandese aveva mutuato da Sant’Agostino e che dichiarava essere stato uno degli spunti dell’opera -, affidando a Vladimiro addirittura una disamina del fatto che la storia del buon ladrone sia presente in un solo Vangelo.
Ecco, oggi, esattamente come nessuno difenderebbe l’analisi storicista e post-marxista di Adorno sulla 'Fin de Partie' del genio irlandese, l’intellighenzia cattolica ha addirittura ribaltato l’approccio negativo dei primi decenni nei confronti del primo capolavoro di Beckett e non manca chi ha analizzato questa straordinaria storia di emarginazione sociale e di simbiosi umana in chiave solidaristica, anti-nichilista e cristiana!
E che il caso Beckett-Godot sia sempre aperto lo dimostra persino uno spettacolo di valore che Wayne Mc Gregor, in questa sua fortunata edizione di Biennale Danza 2024, ha prodotto a Venezia per i due vincitori del concorso per le nuove coreografie del ’23, Maria Chiara de’ Nobili & Alexander Miller, ‘There was stille time’.
In questo racconto che mescola la danza urbana e contemporanea alla break-dance, due novelli Vladimiro ed Estragone s’interrogano sul senso della vita e del loro rapporto, recitando qualche frase originale del capolavoro di Beckett, per poi chiudere sorprendentemente…(no spoiler).
Per restare in tema, anche lo splendido e inquietante 'Liberté-Cathédrale' di Bruno Charmatz, prima creazione originale della sua direzione a Wuppertal, portato alla ribalta dai festival di danza di Lione ’23 e di teatro d’Avignone ’24, è stato rappresentato la prima volta proprio in uno splendido edificio sacro contemporaneo, pur alludendo a un certo punto, addirittura con crudezza, ai casi di pedofilia nella chiesa.
Chissà se un giorno non troppo lontano qualche editorialista cattolico converrà con il direttore artistico della cerimonia olimpica 2024 Thomas Jolly, che il quadro Dioniso-Ultima Cena era soltanto un momento d’inclusività, nello spirito più autentico del cristianesimo…