Per risolvere l'Enigma Banushi bisogna ricorrere ai 'cultural studies', o magari aspettare le carezze di 'Mami'
28.10.2025
Qualcuno dei tanti che hanno acconsentito con entusiastici applausi all’invito definitivo del titolo, ‘Goodbye, Lindita’, avrà pure pensato di aggiungere tra sé e sé anche: ‘Farewell to Banushi’s Enigma’.
E invece ci sarà presto ancora l’occasione, eccome, di affrontare per bene il caso del nuovo autore greco-albanese che porta un italianissimo Mario di nome. Si ripresenterà di sicuro a Milano, Mario Banushi, nella stessa Sala Grande del teatro dell’Arte, con il nuovo spettacolo ‘Mami’ consacrato al successo da un fortunato passaggio al Festival d’Avignone. E’ bell’e pronto come il gioiello della consueta corona luminosa di FOG, della cui prossima edizione 2026 Triennale Teatro Milano annuncerà il programma entro novembre.
Andando con ordine, la stella di Banushi è appena spuntata nel cielo teatrale d’Europa, proprio con la presentazione di ‘Goodbye, Lindita’ nell’ambito di un festival di novità allestito dal Teatro Nazionale della Grecia NTG nel marzo del 2023, a cui erano stati invitati anche una trentina di critici, direttori, registi e addetti ai lavori provenienti da mezza Europa e non solo (tra le prime richieste di ripresa al NTG, dopo il Bitef di Belgrado, Dresda e Amsterdam, arriva l’Adelaide Festival, in Australia).
Nonostante l’anomalia di una poetica performativa che oscilla tra realismo e fantastico, immagini archetipiche e assenza di parole, nudità e complessità, l’Enigma Banushi ha brillato subito di una luce tale che il secondo atto della trilogia familiare, ‘Taverna Miresia: Mario, Bella, Anastasia’, ha fatto il tutto esaurito all’Atene Ephidaurus Festival del 2024, nel grandioso spazio ex industriale di Pireos 260.
Adottato come un nuovo punto di riferimento dagli appassionati greci, e pure tempestivamente nella potente scuderia artistica della Fondazione Onassis, Banushi ha subito incantato anche i critici e gli addetti ai lavori di mezza Europa, almeno quelli che si guardano in giro con la massima attenzione e non trascurano certo quel che si muove nella patria storica del teatro, e in generale nella sempre vivace area balcanica.
(A proposito, uno degli appuntamenti più interessanti di questi giorni di fine ottobre è con il festival organizzato tra Kosovo e North Macedonia che vede in prima fila la Qendra Multimedia di Jeton Neziraj).
Nel 2025, infine, la consacrazione europea con l’invito a Wiener Festwochen piuttosto che ad Avignone, il passaggio a Fonderie Limone Piemonte come primo Extra di Torino Danza e l’invito in Triennale Teatro Milano - che investe subito anche nella co-produzione di ‘Mami’ - per una due giorni di formazione.
I bene informati, che non mancavano tra le file F e G la sera del 24 ottobre per la prima italiana di ‘Goodbye, Lindita’, spiegano che all’origine di tutto ci sarebbe una primissima rappresentazione che il giovanissimo Banushi, diplomando all’Accademia d’Arte drammatica di Atene, ha allestito con pochi mezzi nel salotto di una casa di studenti amici, in pieno lockdown da Covid.
Tanto è bastato per essere chiamato, senza nemmeno aver compiuto 25 anni, a preparare un lavoro dal Teatro Nazionale di Grecia, per l’imminente rassegna di sei nuovi talenti, con la sola raccomandazione: ‘scava il più possibile dentro la tua storia personale’. E così nasce questo racconto che prende le mosse dall’elaborazione del lutto per la morte della matrigna, Lindita, mette in scena il racconto di un vero e proprio rito funebre tradizionale albanese, nelle mura di casa, di una famiglia numerosa con il padre, la nonna e le sorelle dello stesso Mario, per virare poi sul fantastico o meglio l’unreality, come dice in inglese Banushi stesso.
Sia chiaro: può essere incantevole davvero la primissima visione di ‘Goodbye, Lindita’ - uno spettacolo di poco meno di 70 minuti la cui forza è anche l’assenza di parole pronunciate in scena. Per esempio, alla rappresentazione ateniese originale ha fatto subito scattare in piedi un consumato spettatore professionista come Michael Billington, da ormai più di mezzo secolo critico teatrale, che ha scritto sul prestigioso quotidiano inglese ‘The Guardian’: ‘mi sentivo come se stesse assistendo all'emergere di un nuovo entusiasmante talento’.
Nello svolgimento dello spettacolo - attenzione, spoiler! - si possono notare precisi segnali come di punteggiatura o di sottolineatura dei passaggi tra i vari piani del racconto. Un primo scarto deciso dalla realtà, per esempio, si dichiara con la magia di una misteriosa presenza quasi angelicale che viene a suonare alla finestra una cetra e poi s’introduce nella casa abitata dal lutto.
A un certo punto, salta fuori anche Banushi stesso, dalla poltrona in quarta fila della platea dove si era quasi nascosto mentre entrava il pubblico. Sale e va subito ad abbracciare il cadavere di Lindita, subito dopo che è stato rivestito con abiti tradizionali balcanici, e poi resta in scena, omaggiando il defunto con un allestimento di mazzi di fiori e via via partecipando al racconto.
In questo caso la scelta di partire oltrepassando la ‘quarta parete’ degli spettatori sembra tesa a sottolineare il valore universale di questo pezzo di storia di famiglia e in generale delle cerimonie funebri tradizionali, con un invito alla riflessione su quanto tutti lasciamo qualcosa di noi stessi quando dobbiamo lasciare andare qualcuno che amiamo.
Ora, per giocare a carte scoperte, quanto scritto fino non è farina del sacco del cronista e nemmeno dei più entusiasti appassionati interrogati a fine spettacolo, tutti variamente fermi tra lo stupore e l’ammirazione (‘magico’ è l’aggettivo più ricorrente). Ci soccorrono, come al solito, precisi riferimenti e in particolare le spiegazioni di Banushi stesso nella breve intervista a Ira Rubini di Radio Popolare che si può ancora ascoltare online.
Con l’accortezza di lasciar montare per bene anche a Milano l’Enigma Banushi, Triennale Teatro ha scelto di pubblicare sul programma di sala, invece di una semplice intervista o del testo di presentazione, un vero e proprio saggio universitario scritto per la produzione originale di NTG. Lo firma Dimitris Papanikolaou, esimio studioso di cultura greca moderna e collaboratore di varie istituzioni di Atene, che si può fregiare del titolo di docente al St.Cross College dell’Università di Oxford (dove ha invitato lo stesso Banushi nel maggio del 2024, per un seminario sul tema ‘Memoria, Affetto e Identità’).
Il saggio di Papanikolaou, tradotto in un libretto per l’occasione di color arancione, si presenta professorale fin dal titolo, tutto in maiuscola: ‘RIEVOCAZIONE, RIPARAZIONE E PHARRESIA NELLE CASE DI BAMBOLE DI MARIO BANUSHI’.
Dentro questa analisi, per chi la vuole affrontare (si può scaricare dal sito di Triennale), ci sono alcune notevoli intuizioni e altrettanti spunti degni dei migliori ‘cultural studies’.
Per cominciare l’eclettico Dimitris suggerisce che il pubblico degli appassionati greci abbia amato a prima vista Banushi anche perché non ne poteva più di drammi sulle famiglie disfunzionali, di protagonisti sempre pronti a esplodere in bestemmie, gestacci e insulti.
(Come li capiamo i cugini dramaholici greci! In Italia capita spesso al povero spettatore di sognare una legge che introduca il divieto di urla, più ancora che dei soliti melodrammi in salotto: la soglia dell’insopportabilità di questo vizio capitale imposto agli attori s’è ampiamente superata dopo l’introduzione selvaggia degli orribili microfoni).
La famiglia tradizionale albanese-balcanica con i suoi riti, a cui riporta la poetica della memoria di Banushi, è invece ‘il luogo della guarigione’: la rappresentazione diventa così una sorta di cerimonia della cura.
Quanto poi alla ‘pharresia’ di cui sopra, che nel significato evangelico è addirittura un dono dello Spirito Santo, sarebbe in realtà la libertà di prendere parola con franchezza, ma il dotto Papanikolaou la applica paradossalmente alla scelta del silenzio nel teatro di Banushi.
E qui si apre un capitolo che occupa più di metà del saggio, con esemplificazioni anche da spoiler-alert, per scavare intorno al significato politico-culturale intrinseco a questa prima opera importante del nuovo autore.
Grazie alla sua preparazione e alle lenti d’ingrandimento di quella che in America è stata definita French Theory, il buon prof. Dimitris ‘decostruisce’ l’Enigma Banushi come una sorta di orgogliosa rivendicazione etica che riguarda sia l’identità etnica di una minoranza (quella greco-albanese) che ha subito il razzismo e la posizione di classe inferiore; sia le questioni di genere evidenziate con la nudità normalizzante e mai maliziosa dei corpi; e sia pure l’assetto patriarcale della famiglia, rigettato attraverso l’esaltazione del rapporto infantile con le donne e con la realtà femminile.
A un certo punto, nell’elenco degli elementi che entrano in scena per Papanikolaou, figurano persino ‘il desiderio obliquo e il tempo queer’. Il che, poi, è tutto vero perché alla fine si traduce nella forza poetica di Banushi, che nasce proprio come ribaltando la sua esperienza di vita in magia condivisa a teatro.
Appuntamento dunque al prossimo ‘Mami’, ché chi l’ha già visto giura sia uno spettacolo più maturo e, ovviamente, ancora più bello enigmatico.