

Pene d'onor perduto di Latella-Zorro e altri nuovi piccoli scandali di 'genitalità' a teatro
14.02.2025
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Discendendo idealmente dalla stirpe di un artigiano imperiale delle armi e degli elmi del XVI secolo, come il tirolese Seusenhofer, Konrad come me, potrò pure tenere in una certa considerazione il Guglielmo del geniale Goldoni?
Personaggio strano e in parte proiezione dello stesso immenso Autore di Commedie, ‘L’avventuriere onorato’ con l’elmo della volontà nel nome (Wil+elmus), vanta una capacità particolare di saper trovar sempre modo di accomodare le cose, nei rapporti con gli altri, impiegando ogni mezzo.
’Sta bene saper di tutto’, spiega a se stesso nella Scena Diciassettesima entrata direttamente nei dizionari. ‘Vengono di quelle occasioni che tutto serve, e dice il proverbio a questo proposito: impara l’arte, e mettila da parte. (…)’
Dal ‘Carnovale del 1751’ a oggi, al motto classico si sono aggiunte una seconda parte - ‘tempo verrà, ch’ella bisognerà’, dove ‘ella’ sta sempre per arte - e almeno una variante: ‘Impara un’arte e ponla là, quand’egli è tempo e tu la fa’.
Ma in un mondo che sembra impazzito, volendo ancora imparare, ci si può aggrappare all’arte senza nemmeno bisogno di dar tempo alle emozioni di consolidarsi.
Da una 17ma notevole Biennale d’Arte di Lione, che si è chiusa all’inizio del ’25 segnando anche il trend di una nuova teatralità ‘monumentale’ delle installazioni, si poteva apprendere dall’artista palestinese Taysir Batniji qualcosa che è parso a molti straordinario.
Era già come tutto lì dentro anche quel che poi sarebbe capitato tra Gaza e Tel Aviv e il resto del mondo proprio in queste ore, alla vigilia del Giorno della Memoria e di un anniversario della liberazione di Auschwitz che è pure l’80mo ma anche il primo così controverso, con tanto di stallo nel tragico conflitto che si consuma a due passi, tra Ucraina e Russia.
Vediamolo insieme quest’angolo di Batniji al secondo piano del MacLyon. Per cominciare il breve percorso tra le cinque singolari opere riunite per l’occasione, si dovevano scostare degli spessi tendoni scuri e s’entrava in una stanza buia e vuota. Sul pavimento era riprodotto, con pittura fluorescente azzurra, lo scheletro della fittissima rete stradale di Gaza: solo un enorme dedalo di viali e viuzze, così com’era prima della distruzione in corso. ‘Al Anqaâ (Le Phoenix) - 2024’, è il titolo semplice e diretto, che evoca appunto il mito arcano e pressoché universale della Fenice, l’uccello che rinasce dalle fiamme, sempre.
Si passava così al grande spazio aperto con tre opere alle pareti che Batniji ha costruito negli anni.
La prima, ‘Disruptions’, riproduce in formato cartolina e incorniciati in legno chiaro, una ventina di veri screenshot dalle tormentate video-chiamate con la madre e i familiari a Gaza in guerra.
Sul muro di fronte era allineata ‘Pas perdus’, un’inquietante sequenza di 110 orme di scarpe, in negativo a matita su carta, passi spettrali d’umani che calcano con forza un terreno omogeneo infernale, nero bruciato.
Infine, la parete prima dell’uscita reggeva il racconto della negazione dell’identità ‘palestinese’ attraverso uno specifico ‘ID Project 1993-2020’, costruito partendo da documenti autentici e originali legati alla storia della naturalizzazione francese dell’artista stesso.
Attenzione, però, che Batniji ha voluto mettere al centro di questo spazio - e inevitabilmente anche delle attenzioni dei visitatori -, una sorta di stanza interna ricavata con pannelli di legno molto lineari, con due stretti spazi d’accesso da cui s’irradiava uno strano lucore.
All’interno del contenitore ligneo, era come se esplodesse, infatti, l’altra nuova opera, d’una vividezza abbagliante. Riempivano le quattro provvisorie pareti ridipinte di bianco, duecento stampe su fogli formato A4 di foto di piccoli mazzi di chiavi, appese con un ordine rigoroso sui muri e tutte accompagnate da brevi didascalie, sottilmente scritte a mano in matita, che indicavano le case relative, appena abbandonate o distrutte a Gaza.
Un lavoro certosino di catalogazione, d’una tenacia al limite del maniacale, e un’opera certamente tra le più toccanti dell’intera Biennale, che dopo l’amaro rivela, a chi la assapora con attenzione, un retrogusto d’una dolcezza profonda.
I diversi dettagli di ogni mazzo, il tipo di chiavi piuttosto che i ciondoli attaccati, esaltavano il contrasto tra questo inventario e la realtà delle vite vere, che si potevano poi andare a leggere vincendo anche il disturbante riverbero di una forte illuminazione sulla dominanza di bianco.
La fragilità e i'impermanenza perfettamente ribadite dall'uso di una sottile grafia a matita sul muro, per le schede sui proprietari, si accostavano armonicamente all'approccio invece freddo e distanziato di quella specie di provvisoria classificazione secondo gli standard delle foto still-life, addirittura con l’oggetto repertoriato, scontornato e astratto dal contesto, al centro di un semplice foglio bianco.
Un solo esempio che in alcune interviste ha citato l’artista stesso: tre chiavi tenute insieme da un anello connotato dall’aggiunta del ciondolo di un piccolo Handala, che è uno dei simboli della tragedia palestinese - l’icona buffa di un bimbo-straccione in fuga, creato dal disegnatore Naji al-Ali, che fu ucciso a Londra, nel 1987, in circostanze da spy-story. La didascalia accanto al portachiavi Handala riporta: ‘Abd El-Rahman Shamallakh, abitante del quartiere Sheikh Ijlin, a sud-ovest della città di Gaza. Rifugiato il 14 ottobre 2023 ad Al-Mawasi a Khan Yainès. La sua casa è stata distrutta il 30 marzo 2024’.
Di una disarmante essenzialità anche il titolo dell’intera raccolta delle 200 foto: ‘Au cas où #2’, che si può tradurre ‘In caso o #2’, dove l’hashtag con il numero due sottolinea l’ostinato attaccamento alla casa perduta, come se tenersi le chiavi per un ipotetico rientro, in un secondo momento davvero quasi impensabile, sia anche una forma di reazione alla terribile ‘caduta’ (caso e caduta sono insiti nello stesso termine ambivalente latino, per caldo da un analogo greco).
Non c’è bisogno d’aggiungere che la stretta al cuore che si provava a lasciarsi trasportare in questo percorso artistico da Taysir Batniji (come si può magari intuire sfogliando le schede online delle opere, a partire dalla prima stanza-mappa), a molti faceva scattare un relais con le emozioni provate durante le visite ai Lager museificati, piuttosto che dinanzi a immagini rievocative dell’Olocausto.
Qualcosa d’altrettanto esemplare e per certi versi consonante è il progetto artistitico intitolato ‘Palestinian Museum of Natural History and Humankind’ di Khalil Rabah, che la Fondazione Merz di Torino ha ospitato nel 2023/24 proprio a cavallo del nuovo terribile incendio a Gaza (un agevole video online lo documenta ancora oggi).
Dallo stile quasi freddo e al limite dell’assurdo, eppur così diretto e vero, di questi due artisti palestinesi, alla fine, si può imparare che ha poco senso ormai lo scontro, magari sacrosanto, sull’uso delle parole: ‘il genocidio’, ‘la legittima reazione’, ‘l’operazione speciale’ e la definizione di ‘criminale di guerra’ non possono celare le realtà nude e crude della vita in Palestina, come in Ucraina e in tutte le guerre. Sicuramente altri bravissimi artisti, come Batniji, avranno già provato a rappresentare ancora altri aspetti.
Bisognerebbe organizzare, dove ancora regna la provvisoria pace, qualche grande evento riservato al confronto tra le migliori rappresentazioni artistiche dei diversi Paesi belligeranti e nemici. E farlo anche così, un po’ liberamente: qui l’inquietante allestimento di Batniji o Rabah, accanto un pezzo di danza contemporanea bello ricco d’energia, di uno dei vari strepitosi coreografi d’origine israeliana, che sia Ohad Naharin o il più giovane Hofesh Scechter; con ucraini e russi, nemmeno a dire tra quante opzioni si potrebbe pescare; meno facile ma possibile scovare esempi artistici in Sudan, in Myanmar e via elencando…Si può fare, sì, si può.
Già, per certi versi si rivela sempre una cantonata la pur intrigante sentenza di Adorno: ‘Non si può più fare poesia dopo Auschwitz’. L’atroce ‘disumanizzazione’ è ancora nel vento e il vento fa i suoi giri, anche paradossali.
80 anni dopo, nel tristemente diffuso e sempre più disinvolto ‘tradimento della memoria’ del Male assoluto della storia, soltanto l’arte e la poesia ci possono ricordare di ricordare.