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Riportare a teatro Vitaliano Trevisan e la sua Notte, senza dimenticare quell'irruzione illuminante nell'Italia del Risentimento e dell'ipocrisia

Una delle ultime immagini di Trevisan, dal profilo social di un amico

 Piccolo evento d’una certa importanza, l’appuntamento per un semplice ‘reading letterario’ - di un’ora e dieci e per giunta alle 20 di lunedì, che sarebbe il giorno di chiusura dei teatri -, quello del 27 gennaio nella Sala Grande del Teatro Franco Parenti con ‘La notte di Vitaliano Trevisan’, si presenta subito come un moltiplicatore di rimandi per gli appassionati. 

 E’ ancora bene incisa nel marmo l’epigrafe dello scrittore, sul loculo 30 al cimitero di Sandrigo: ‘La gente va e viene parlando di ciò che sa e non sa’. Eppure, a tre anni dal suicidio di Trevisan, la sua vita e le sue opere, così inscindibilmente legate, hanno mantenuto la stessa forza intrinseca, per così dire esplosiva, con cui si sono sviluppate.  

 André Ruth Shammah, con il legittimo orgoglio di chi ha tenuto aperte le porte del teatro al lavoro dello scrittore, fin quasi all’ultimo, cioè al ricovero forzato in psichiatria e ai mesi più neri di Trevisan, ha voluto ricordarlo garantendo la presenza in scena come lettori di tre Attori di casa al Parenti, diversi eppure appunto maiuscoli. Sono Carlo Cecchi, magistrale protagonista da oltre 50 anni; Fausto Cabra, cioè ‘il ragazzo’ dell’ultima straordinaria compagnia ‘lehamaniana’ di Luca Ronconi; e Valentina Picello, tra le migliori interpreti italiane della generazione di mezzo.

 Il reading, recita la scheda con allegata una breve biografia di Trevisan (1), ‘si compone di pagine tratte da diversi volumi dell’autore’ - da ‘I quindicimila passi’ all’ultimo ‘Black Tulips’, passando per ‘Tristissimi giardini’, ‘Standards’ e naturalmente il capolavoro ‘Works’ -, ‘che formano un racconto, un ritratto frammentario e naturalmente incompleto di Vitaliano Trevisan’.

 La ‘mise en espace’ dell’evento è affidato al regista  Andrea Baracco e la drammaturgia, firmata da Jacopo Squizzato, fa leva ‘sulla base della cadenza a ritmo di jazz delle passeggiate vicentine dell’esordio di Trevisan, per interporre gli altri brani in una sorta di montaggio incrociato’.

 Probabile che, anche solo per buon gusto, non riecheggeranno al Parenti le pagine più feroci di ‘Works’ sul mondo dello spettacolo italiano. Del resto, sono soltanto tra i temi tangenziali, in un romanzo autobiografico che si può considerare l’affresco ‘balzachiano’ più riuscito sull’Italia del Nord-Est al culmine dell’opulenza nella ‘post-modernità liquida’. 

 Trevisan, che molti ricordano come attore protagonista della sua prima sceneggiatura per il cinema, l’inquietante ‘Primo amore’ di Matteo Garrone (2004), ha scritto anche molto per il teatro, salendo subito al rango di drammaturgo da palcoscenici istituzionali.

Lo fece nel 2005 con ‘Il lavoro rende liberi’ (2005) che lo Stabile di Torino affidò alla regia di Toni Servillo - l'attore firmò anche le scene, con una grande vasca di calcestruzzo che Trevisan trovava orribile e fuorviante -; e lo rifece altre volte, persino adattando classici come 'Gli innamorati' di Goldoni per la stessa Shammah (2015), fino all’ultima ‘Giulietta’ di Federico Fellini (2020) con la regia di Walter Malosti per TPE, andata in scena al Parenti.

 Era anche un fine lettore e conoscitore di un certo teatro, Trevisan, sia per l’importanza letteraria di autori classici contemporanei come Samuel Beckett, a cui si dichiarava debitore, almeno quanto a Thomas Bernard, sia per il fascino che hanno indubbiamente esercitato su di lui i più inquieti talenti coetanei post-moderni, come Sarah Kane.

 Quando, nel 2012, si dedicò anima e corpo ad allestire un suo Festival, con Assurdo Teatro, nell’ex Lanificio Conte di Schio, Trevisan scelse un titolo tagliente e nient’affatto aulico o fumoso, come si usa nei teatroni, ma bello diretto come un brano punk: ‘Suicide Parade’. Presentò personalmente i tre incontri di preparazione, utilizzando suoi stessi testi da ‘I quindicimila passi’, ‘I suicidi di Bernhard’ e ‘Innamorate dello spavento’

 E volle impegnarsi sulla scena anche per l’ultima serata, accanto all’attrice Eleonora Giovanardi, in una lettura di ‘4:48 Psychosis’. Ovvero l’ultimo e notoriamente alquanto arduo testo che la Kane ha lasciato, a 28 anni, prima di provare a uccidersi (gesto estremo che la drammaturga britannica ha poi compiuto, strangolandosi con i lacci delle scarpe, poche ore il ricovero in ospedale).

 Attore, lettore e scrittore di teatro davvero unico, raffinato per talento e controverso per scelta, Trevisan per alcuni anni ha conosciuto così da vicino il milieu dello spettacolo italiano ufficiale e istituzionale, quello del potere e delle cricche e dei premi, incocciando subito in un clamoroso incidente con uno dei protagonisti più noti e riveriti, icona del progressismo da salotto e dei finti moralisti da prima pagina.

 Il racconto che Trevisan ha lasciato, in cinque-sei paginette verso la cinquecentesima del denso ‘Works’, di questo duello impossibile, che qualcuno ha maliziosamente interpretato solo come la coraggiosa e sacrosanta demolizione del mito di X, corre via come uno strepitoso monologo, rabbioso e vendicativo, che fotografa perfettamente un prototipo di una certa nostra miserabile Italia borghese contemporanea. 

 E, più precisamente, la parte nota e riverita della cosiddetta ‘intellighenzia’, dove chi ha mostrato magari un briciolo di talento in più, appena viene sussunto dal circoletto dei finti professori e s’erge sul piedistallo, può fagocitare incarichi, prebende, riconoscimenti incongrui, che tendenzialmente spetterebbero ad altri. Magari, appunto, ai Trevisan di turno, provinciali, d’origini piccolo-borghesi, irruenti e irriverenti, con nessun uso di mondo e con la fama  di pessimi caratteri che li precede.  

 Ci sarebbero anche le pagine, quasi all’inizio di ‘Works’, sulla Roma che fu del nuovo ‘generone’ pariolino (‘Comincio a stancarmi di gente con case a Capalbio, con o senza seguito di costosissimi figli che studiano da registi, che conducono vite dispendiosissime, e immancabilmente iniziano i loro fumosi discorsi dicendo: Non ci sono soldi. È grottesco.’), sulfuree per quella riconoscibile decina di cognomi arcinoti: potrebbero essere uscite dalla penna di un Pasolini ultima maniera, vedi le parti introduttive del maledetto incompiuto ‘Petrolio’.

 Viceversa, nel liberatorio racconto del ‘vaffanculo’ con il grande X, che proprio solo in compimento viene chiamato con il vero nome di battesimo, si tocca invece il vertice del Houellebecq più feroce contro le ‘artistar’ e il sistema culturale-industriale (‘La carta e il territorio’). 

 Ma sono tutte quisquillie e rimpianti per quel che ci avrebbe potuto ancora dare il talento di Vitaliano Trevisan, per cui oggi lettori appassionati e battitori liberi sulla sua scia, possono spendere soltanto paragoni eccellenti.

Lo scrittore Sergio Garufi, un irregolare di rincalzo, parlando dell’orizzonte nero dell’ultimo romanzo consegnato all’editore da Trevisan prima del suicidio, ha ricordato addirittura il concetto di ‘lastscape’ di Mark Rothko, esibito da un critico amico a proposito della serie ‘Black on Grey’, i dipinti degli ultimi tormentati giorni (2).

 Anche se, a dire il vero, di astratto non aveva proprio niente l’arte viva e incalzante delle parole nude e crude dell’irrequietudine di questo gigante neo-post-realista, autentico anti-poeta del Risentimento italiano, che fino all’ultimo biglietto è restato fedele a se stesso (‘nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla’) e si è piegato al destino da ‘Suicide Parade’ così, semplicemente: ‘sono stanco e non ne posso più’.  

La lapide a Sondrego con epigrafe di Al Lecap, pseudonimo di Livio Pacella, poeta e scrittore eclettico, amico di Trevisan (screenshot fermoimmagine di un servizio del TgR Veneto)

 (1) TUTTO TREVISAN IN 1800 BATTUTE

 Vitaliano Trevisan, Sandrigo 1960 – Campodalbero di Crespadoro, 2022. Consegue il diploma di geometra nel 1979. Esordisce nella scrittura a 38 anni, dopo essersi dedicato a vari lavori, dal lattoniere al costruttore di barche a vela, dal cameriere al geometra, dal gelataio in Germania al portiere di notte, come lui stesso racconta in Works, Einaudi stile libero 2016. Dopo Un mondo meraviglioso, uno standard, uscito per Theoria nel 1996; e Trio senza pianoforte/Oscillazioni, Theoria 1998, la notorietà arriva nel 2002 con il romanzo I quindicimila passi. Un resoconto, Einaudi 2002, Premio Campiello Francia 2008. Seguono, tra gli altri, Shorts, Einaudi 2004; Il ponte. Un crollo, Einaudi 2007; Grotteschi e arabeschi, Einaudi 2009; Tristissimi giardini, Laterza 2010; Works, Einaudi 2016. Esce postumo nel 2022 Black Tulips per Einaudi, che nel 2024 pubblica la Trilogia di Thomas (che raccoglie Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi e Il ponte). Per il teatro cura l’adattamento di Giulietta, da Fellini, con Michela Cescon, regia di Valter Malosti nel 2004; ha scritto Il lavoro rende liberi. Scandisk e Defrag (2005); Oscillazioni (2006); Note sui sillabari (2007); Solo RH per Roberto Herlitzka, 2007; 3 drammi brevi (2008); Una notte in Tunisia (2011); Wordstar(s) (2011); Good Friday Night (2013); North by North-East (in Ritratto di una Nazione, 2017); Il delirio del particolare, Premio Riccione per il Teatro 2017; Il Cerchio Rosso (2018); I crolli di Shakespeare (2018); La bancarotta (2019). Ha curato traduzione e adattamento di RIII-Riccardo III per Alessandro Gassmann (2013); e l’adattamento de Gli Innamorati di Goldoni per Andrée Ruth Shammah (2015); Il Giocatore di Dostoevskij per Gabriele Russo (2017). Ha lavorato anche per il cinema, debuttando nel 2004 in Primo amore di Matteo Garrone (attore e sceneggiatore).

Dalla scheda del Teatro Parenti per il reading 'La Notte di V.T.' (2025)

Roberta Caronia in 'Giulietta' di Federico Fellini, versione teatrale di Vitaliano Trevisan, regia di Walter Malosti (2020): è stato l'ultimo spettacolo dello scrittore in scena al Parenti

(2) TULIPANI NERI E NERI IN GRIGIO, IL NESSO

 ‘L’associazione fra il libro di Trevisan e Rothko nasce appunto da un episodio specifico della vita del grande artista americano raccontato dal suo amico Brian O’Doherty. Questi era presente nel dicembre 1969, quando Rothko, già gravemente malato e depresso per la separazione dalla moglie, diede un party nel suo studio sulla 69esima per presentare i suoi ultimi dipinti cupissimi della serie Black on Grey, che considerava i più audaci che avesse mai fatto. ‘Lastscape’ li definì Brian, paesaggi psichici terminali, ultimi orizzonti che il guardo escludono, come una premonizione di morte. Il collega e amico Robert Motherwell ricorda che quella sera Mark occupò per tutto il tempo il centro del grande atelier (una rimessa per carrozze del XIX secolo) senza aprir bocca e con lo sguardo perso dietro le spesse lenti, mentre sulle note del Don Giovanni di Mozart intorno a lui ruotavano gli invitati come i fedeli della Mecca, probabilmente ignari di trovarsi di fronte a qualcosa che si concepisce solo al culmine della disperazione, per usare il titolo di un libro di Cioran che Rothko aveva sul comodino meno di due mesi dopo, quando si tolse la vita. 

Ecco, Black tulips per me appartiene a questo genere di opere. Parla del viaggio di Vitaliano Trevisan in Nigeria assieme a una prostituta sua amica conosciuta in Veneto (il tulipano nero in botanica è anche detto “Queen of the night”), ed è l’ultimo libro che ha scritto, “inviato a Einaudi qualche mese prima di morire”, come riportato in seconda di copertina. 

Già la scelta dei tempi è paradossale. Lui decide di andarsene in un momento anomalo, al termine del processo creativo, quando ogni autore è curioso di conoscere il destino della sua nuova opera. Normalmente si muore con un libro a metà, interrotto, mentre lui ha diligentemente consegnato all'editore il testo finito e revisionato, rispettando così i termini contrattuali, e poi gli ha voltato le spalle. Ma la risposta la dà lo stesso Trevisan nelle prime pagine, quando confessa: “Cammino, come gli antichi, con lo sguardo rivolto al passato. Il futuro non ho mai saputo né vederlo né ritrovarlo, non sono mai riuscito a vedere me stesso nel futuro”. 

 Sergio Garufi da ‘Paesaggio terminale di Vitaliano Trevisan’ 

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