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In hoc signo vinces, da Costantino a Warburg

Il Colosso di Costantino ricostruito nella Cisterna della Fondazione Prada a Milano per ‘Recycling Beauty’.

  Una nuda poltrona marmorea attira subito il dramaholic che visita la mostra cult sul riuso delle antichità ‘Recycling beauty’ alla Fondazione Prada di Milano. Il comune visitatore, invero, risulta più attratto dalla curiosa seduta accanto, ‘una soggetta da latrina d’età imperiale in pietra rossa’: la didascalia racconta che nei secoli fu pure utilizzata per i conclavi, e che i cardinali la facevano provare all’eligendo pontefice con lo scopo di valutarne gli attributi maschili, sic. La nostra poltrona era un posto d’onore del teatro greco di Nozio, Anatolia centrale, e di sicuro il personaggio degno di occuparla era preceduto da uno schiavo che gli portava i cuscini… Una poltrona del II secolo avanti Cristo, come testimonia l’iscrizione greca con dedica a Dioniso, riscoperta nel 2008, che nel corso della storia è stata poi seggio episcopale, anche in Italia, dove è stata trasportata non si sa come e quando; oggi, infine, è conosciuta addirittura come ‘Trono di Virgilio’, nel Museo di Palazzo San Sebastiano a Mantova. 

PER ESCHILO E IONE, IL PUGILE FA SCUOLA ALL'ATTORE

Questa storica seduta teatrale risulta ricavata da marmo bigio di Chio, ovvero dalle cave che hanno reso celebre il nome della città di Ione, il quarto genio del teatro greco, Ione di Chio, appunto. A Ione spetterebbe forse d’esser citato subito dopo Eschilo, di cui fu contemporaneo e amico, prima di Sofocle e di Euripide, ma purtroppo se n’è un po’ persa la memoria, oltre che praticamente l’intero corpus delle opere, sia poetiche sia teatrali (forse condannate dalla stroncatura dello Pseudo Longino). Eppure, attraverso Plutarco, ci rimane l’aneddoto di un’incursione di Ione con Eschilo tra gli spettatori di un incontro di pugilato, con le osservazioni che si scambiarono dopo una scazzottata particolarmente violenta. Ione riporta che gli avrebbe fatto notare Eschilo, stando a quel che si legge nel testo tramandato dell’opuscolo polemico anti-stoico di Plutarco sul ‘Progresso nelle Virtù’: ‘Vedi cosa significa l’allenamento! Il pugile che viene colpito se ne sta in silenzio, mentre gli spettatori gridano’. Il che si può considerare persino il principio base di quella che poi diventerà la tecnica di training dell’attore (ovvero ‘una descrizione filosofica della finzione attuata nell’arte performativa’, come nota Enrico Piergiacomi nella sua bella Teatrosofia).

UN NUOVO COLOSSO ROMANO RIFATTO IN PEZZI

Aldilà dell'impatto straordinario con una sorta di laboratorio a tema delle molte vite di un oggetto d’arte classico, nonché della grande prova di quella che oggi si chiamerebbe narratività, in questa mostra ‘la sorpresa più grande è riservata a una sala della Cisterna, dove sono esposti non solo due giganteschi frammenti (una mano e un piede) del colosso di Costantino che sorgeva nella Basilica di Massenzio, ma anche la ricostruzione sperimentale in scala 1:1 dell’intero Colosso approntata, sotto la guida del Sovrintendente Capitolino Claudio Parisi Presicce, da Adam Lowe nel suo laboratorio di Madrid, Factum Arte. Accuratissimi calchi dei singoli frammenti, integrati per congettura da quel che manca, hanno consentito di realizzare quest’opera imponente (alta più di 11 metri), che dopo la mostra verrà esposta in permanenza ai Musei capitolini’. Così scrive lo stesso curatore Salvatore Settis sull’austero depliant che viene distribuito, 12 pagine di carta, riciclata anch’essa si spera.

Nell’inversione ormai generalizzata del rapporto tra pubblico e privato, la ricostruzione del neo Colosso, che si tradurrà in restituzione alla principale struttura civica romana, è solo il clou di un'esposizione in cui la quantità e il livello dei prestiti da musei e istituzioni di mezzo mondo, in primis le più importanti d’Italia, fa impallidire ogni confronto. 

IL GRANDE ARTISTA SEGUE LA TRACCIA NEL NEURONE?

  Con questa mostra che porta a compimento il progetto inaugurato nel 2015 con ‘Serial Classic’ (online se ne trova un’accurata galleria), si può dire che Settis sia finalmente riuscito a sancire una sorta di egemonia culturale del metodo che si rifà alle idee di Aby Warburg, il grande studioso collezionista degli anni Venti, 'ebreo tedesco e fiorentino' come si definiva, la cui ricchissima biblioteca fu sottratta al nazismo e portata a Londra nel '33 dall'allievo Fritz Saxl. E' una concezione della storia dell’arte basata sulla ricerca diacronica e trasversale delle ‘pathosformeln’, le forme del pathos, che sarebbero il corrispettivo degli archetipi e dei ‘topoi’ letterari, matrici iconografiche che condensano e riflettono la creazione originaria in grado di smuovere l’animo di chi guarda, riproducendo una sorta di analogo pathos per secoli. Per chi volesse approfondire, di Warburg parla diffusamente da anni lo stesso Settis, vedi per esempio ‘Il demone della forma’. La rivista stessa che ospita questo e altri contribuiti consonanti, prende il nome da una suggestione del neurologo Richard Semon, entrata poi nel canone warburghiano, secondo cui ogni esperienza umana lascia una traccia sulla materia cerebrale, l’engramma appunto.

La citazione

Di queste mie idee generali, a cui io dò tanto valore, forse più tardi si dirà o si penserà: queste idee erronee hanno almeno avuto l'effetto positivo, di spingerlo a scoprire, scavando qua e là, singoli dati di fatto prima ignorati. Insomma, il mio lavoro sarà caratterizzato come quello di un cane da tartufi.

Aby Warburg, 1907
In primo piano la seduta romana da latrina e 'il trono di Virgilio'

SE IL VISITATORE DEVE SFORZARSI DI LEGGERE...

 Questo modo di oscillare tra presente e passato è una tendenza che ha appena segnato trasversalmente le più importanti Biennali d'arte contemporanea del ’22, da Venezia a Istanbul, e in particolare quella intitolata ‘Manifesto of Fragility’ a Lione, nonché pure Documenta 15 ‘Lumbung’ di Kassel, secondo Angela Vettese (sul Domenicale del Sole 24 ore, l’8 gennaio 2023). Questo intreccio forte con il passato che invita alla lentezza dell’ascolto, è anche ciò che costringe il visitatore a una fruizione meno banale, si direbbe propriamente meno estemporanea, esigendo in qualche modo un’attenta lettura delle ricche didascalie, che tanti considerano comunque chilometriche, abituati alla corta misura dei messaggi social-mediatici o addirittura già immersi nel mondo in video-short di TikTok. 

 Al servizio del demone della forma alla Warburg, il diavoletto kantiano della ‘kultur’ alla Settis vorrebbe convincere persino la generazione dei ‘self-icienti’ a ripartire dalla vita di prima, a ritornare per qualche mezz’ora come a scuola, addirittura a sedersi alla scrivania, come nel Podium, dinanzi ad alcune opere e all’accurata spiegazione a latere. In hoc signo vinces, per dirla con Costantino. Volendo, lo splendido animale bronzeo del II secolo che troneggia all’inizio di questa ‘Recycling Beauty’, insegna che anche in ambito pagano il Pavone era già un simbolo di resurrezione (a dire il vero, l’ho letto dopo, in una citazione del catalogo: al momento ero troppo impegnato a guardare come e dove si mettevano in posa molti visitatori con lo smart-phone alla mano, indecisi tra il piedistallo del re dei fasianidi e il bassorilievo, la cosiddetta stele funeraria del Palestrita, delle figure di un aitante atleta maschio con il suo efebo…).

La stele del Palestrita.
A destra nella veduta d'insieme del Podium, il Pavone.

QUELLE DIVISE GRIFFATE DA GUARDIA GIURATA

La Fondazione Prada di Milano annuncia 'Recycling Beauty' fino al 27 febbraio 'in cartellone'. E' proprio il caso di spendere un’espressione generalmente usata per lo spettacolo, non solo per l’assetto stabile di questo complesso museale con sala cinematografica, stanza museo di Jean-Luc Godard, bar di Wes Anderson, per non dire della collezione permanente con i vari Hirst and Co. e spazi denominati Casa degli Spiriti o Processo Grottesco. Il titolo della mostra in corso introduce non solo il concetto di bellezza, ma lo associa al riciclo, e la ricerca della coerenza 'ecologica' è dichiarata persino nell’allestimento progettato dall’architetto Rem Koolhaas, con parti già utilizzate nella precedente 'Serial Classic', di cui lo storico dell'architettura Marco Biraghi (tra l'altro curatore di una recente edizione italiana delle opere di Warburg), parlò come del 'primo contenitore espositivo incertamente oscillante tra la Neue Nationalgalerie di Berlino di Mies van der Rohe e uno showroom di Prada, concepito appositamente per mettere in scena la questione della riproducibilità dell’opera d’arte nell’epoca antica, e dunque, nuovamente, il rapporto tra annullamento e sopravvivenza in condizioni differenti dell’aura’.

A proposito di 'auree', si fa per dire, una chiosa: dopo aver notato che nel Palazzo della Triennale a Milano le maschere giovani e filoformi sono state rivestite in sobrio total-black proprio come un tempo in largo Isarco alla Fondazione Prada, colpisce che nel tempio dell’art-washing pradista-bertelliano abbiano messo tutti gli/le addetti/e all'esposizione in divisa da guardia giurata, o quasi, camicia grigia con etichetta, pantalone scuro con riga laterale e fondina per walkie-talkie d’ordinanza. Giusto il maitre del Bar Luce, per cui Wes Anderson dice d'essersi ispirato ai capolavori milanesi del neorealismo, il 1 gennaio del 2023 sfoggiava ancora, sotto il consueto gilet scuro, una camicia rosa squillante.

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