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Che confusione, l'autocelebrazione: il '68 diventa post-1975, l'intellettuale organico un rivoluzionario e il teatro povero...

Julia Varley di Odin Teatret a Venezia

 Non sarà uno spettacolo all’Arsenale ma un ‘Open Meeting’ a Ca’ Giustinian, con ben dodici relatori da tutto il mondo, l’evento centrale, propagandato da mesi e atteso per il primo pomeriggio di giovedì 5 giugno, nel pur ben ricco programma della nuova Biennale Teatro di Willem Dafoe.

Sarà anche una sorta di auto-celebrazione della Biennale stessa, perché verrà rievocata l’edizione del 1975 diretta da Luca Ronconi, che fece convergere in laguna tanti protagonisti della Rivoluzione Settanta che sconvolse il mondo del teatro.

 ‘Venezia 75/25: Cinquant’anni di nuovo teatro’, così s’intitola enfaticamente l’incontro, dove certo interverranno anche due figure straordinarie di quella svolta ancora attive, come Eugenio Barba e Julia Varley di Odin Teatret, accanto a numerosi eredi o testimoni delle varie altre esperienze di allora.

 Per inquadrare meglio il fenomeno bisognerebbe riportare in vita anche Franco Quadri, che fu l’intellettuale di riferimento di quella stagione e l’animatore originale di tanti incontri tra quei protagonisti. Si può soltanto rileggere almeno l’agile volume che Quadri ha pubblicato nel 1984, con l’editore Einaudi, n.14 della collana La ricerca, sezione Blu sulla Critica, che raccoglieva alcune approfondite interviste sotto il titolo inequivocabile: ‘Invenzione di un teatro diverso’.  

 Un semplice confronto con le tesi di Quadri e di alcuni dei grandi della Rivoluzione Settanta che si confrontano nel volume, fa balzare agli occhi le due evidenti 'distorsioni percettive' del ricordo di oggi relativo a quella Venezia 1975, che si riverberano persino nell’insolita composizione della dozzina di relatori con Dafoe. 

 Già in un serrato dialogo con Barba che Quadri riporta nel libro, si sottolinea che, posto che mai ci siano stati davvero dei guru di quel mondo alternativo, in sostanza soltanto Julien Beck e Jerzy Grotowski assursero a un ruolo del genere, ma si tratta di personaggi strettamente degli anni Sessanta (nel ’75 avevano ormai quasi del tutto chiuso con il teatro).

Anche solo scorrendo la voce dedicata a 'Il Nuovo Teatro' dall'Enciclopedia Treccani questa datazione trova conferma piena, addirittura è indicato il 1959 come anno della consacrazione del Living con 'The Connection' e il 1960-62 come arco temporale in cui si sono consumate le esperienze chiave teatrali di Grotowski. Allargando il discorso anche solo a Peter Brook, la cui svolta fu particolarmente significativa venendo da una posizione consolidata nel teatro tradizionale inglese, 'lo spettacolo della 'rottura' rispetto all’establishment' - segna sempre la Treccani - è stato il Marat-Sade del 1963.

Ancora - insisteva Barba con l’amico critico che, peraltro, a priori aveva scartato dal volume sulla Rivoluzione Settanta sia Living Theatre sia le esperienze varie di Grotowski dal Teatro delle 13 file di Opole in poi - i percorsi di queste due sole figure davvero carismatiche che sfilarono anche alla Biennale del 1975, Beck e Grotowski, andrebbero perciò valutati per quello che sono stati, ovvero essenzialmente e dichiaratamente post-teatrali, di testimonianza esistenziale e politica. 

 Con il candore che lo contraddistingue, ancora adesso, nel catalogo appena pubblicato della rassegna Defoe del Teatro, Barba risponde secco alla domanda sul grado d’influenza dei vari protagonisti della Biennale 1975: bisognerebbe prima di tutto distinguere bene ‘le qualità umane dei singoli registi e attori’ e poi valutare attentamente ‘l’originalità e contundenza dei loro spettacoli’. Come dire, in bel modo, che c’era anche tanta maniera e forse un po’ di fuffa.

 Aggiungendo che nel suo caso ‘si può parlare di influenza solo a proposito di Jerzy Grotowski, con il quale - specifica Barba - ‘ho passato tre anni, dal 1961 al 1964, come suo assistente e sul quale ho scritto il libro ‘Alla ricerca del teatro perduto’ (edito da Marsilio nel 1965)’. Per chiudere sottolineando: ‘Ma questo era ben prima del 1975’, frase su cui si potrebbe onestamente costruire l’anti-titolo perfetto anche della discutibile auto-celebrazione di oggi.   

 Il discorso si farebbe poi lungo e complesso entrando meglio nei dettagli, per esempio anche solo affrontando onestamente il caso Ronconi, che fu uno straordinario regista teatrale e certo pure un innovatore, meraviglioso nella dimensione extra-teatrale, peraltro.

Ma Ronconi è stato anche un regista così prolifico da alternare tanta routine a capolavori che hanno segnato davvero pagine innovative ('indovina uno spettacolo su cinque', diceva la storico Claudio Meldolesi che pure ne condiveva le idee politiche e culturali).

E poi, soprattutto, di Ronconi bisognerebbe parlare come del classico ‘intellettuale organico’: già subito dopo la sua celebrata Biennale del 1975, fu il primo a dimettersi e lasciare Venezia appena il Presidente socialista Carlo Ripa di Meana propose di allestire una Biennale del Dissenso, nel 1977 (che il Partito comunista boicottò considerandola una provocazione 'antisovietica'). E così presto oltre alla dimensione culturale e registica, Ronconi assurse a una posizione di notevole potere istituzionale e di influenza.  

Non che dirigere teatri pubblici di prim'ordine e accentrare oltremodo produzioni, disponendo pure di budget eccezionali in occasioni come le Olimpiadi invernali di Torino, si possano considerare 'tout court' un freno alla potenza creativa, ma non sono propriamente la precondizione necessaria al 'nuovo' nè possono contribuire in generale a una maggiore vitalità culturale.

 A prescindere da singoli casi, c’è da dire banalmente che le avanguardie hanno quasi sempre il destino segnato, un po’ come le rockstar quando passano l’età fatale: le idee rivoluzionarie che non vengono soffocate, alla fin fine servono per dare nuova linfa al sistema. 

 E poi, ormai, i tempi sono talmente cambiati che oggi un certo atteggiamento ‘provocatorio’ anti-borghese è diventato di routine, e il moribondo teatro borghese, soprattutto quello dei grandi contesti con budget considerevoli, sopravvive bene anche grazie a queste piccole scosse ‘scandalose’. Dunque, difficile dire che senso abbia animare la nostalgia per gli anni in cui era possibile davvero fare tuoni e fulmini - che poi appunto furono intorno al decennio Sessanta, cioè ‘ben prima del 1975’ -. 

 Parla da solo il confronto tra un’immagine mitica di 50 anni fa, di guru Grotowski circondato da frotte di hippies, nell’Isola di San Giorgio, per l’ultima riproposta della sua ‘Apocalypsis cum figuris’ a lume di candela (anch'essa un'opera datata 1969, vedi sopra) e il paio di oggi, Biennale 2025, con l’Isola del Lazzaretto affidata a Romeo Castellucci.

Ovvero una firma riverita e conclamata del ‘luxury-theatre’ in luogo (o quasi) di quello che fu l’ideologo di riferimento del ‘teatro povero’. Certo, poi il maestro di Socìetas sa sempre come cavarsela, non ha fatto un kolossal visionario come i suoi allestimenti operistici o dei classici, ma una performance dal titolo ’Mangiatori di patate’ che evoca pure lodevolmente il Van Gogh dei poveri diseredati…Sono pur sempre i 50 anni della Rivoluzione Settanta, no!?! 

Luca Ronconi aveva affrontato 'Candelaio' da Giordano Bruno nel 1968 a Venezia, lo ha poi riproposto in questa nuova edizione per il Piccolo nel 2001 (foto di Marcello Berth)

P.S.: La questione di una certa ambiguità dell'esibita nostalgia degli anni Settanta e della sterilità delle autocelebrazioni non è solo una fissazione di pochi dramaholici fanatici che riempirebbero molto di più le scene di nuovi protagonisti e di elementi di rinnovamento.

L'ultimo Critico teatrale militante di spessore ormai davvero 'storico', Enrico Fiore, sta facendo notare questo aspetto alquanto contraddittorio del festival 2025 nel suo Controscena, recensione dopo recensione, a partire dallo spettacolo del Leone d'Oro Elizabeth LeCompte.

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