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Con l'aratro in teatro: FC Bergman, 'Works and Days, il contesto della sala, la produttività e quel maledetto capolavoro

'Works and Days' di FC Bergman (foto di Kurt Van Der Elst)

 Si può entrare persino in un Altrove, se ci si abbandona dinanzi alle magie del collettivo fiammingo FC Bergman. Una via di mezzo tra il Paese delle Meraviglie del teatro e la comprensione attraverso l’esperienza contemplativa, e così si vorrebbe restare ancora un po’ dentro questa bolla. 

 Più tardi, o dal giorno dopo, a qualche incauto secchione, viene magari anche voglia di raccogliere la sfida con il livello culturale che toccano ogni volta queste performance spettacolari studiate con cura. Prima, cioè subito alla fine dello spettacolo, scatta qualcosa di strano e di istintivo dentro l’autentico appassionato.  

 Si era appena concluso il giro di applausi e la sala del Piccolo Teatro Strehler si stava svuotando, nella seconda serata del 28 maggio, al termine della mirabolante prima rappresentazione italiana di ‘Works and Days’ (il 3-4 giugno si ripete a Torino, Fonderie Limone, il 21/22 giugno a Salerno, Teatro Verdi e poi, dal 7 agosto, al Festival Internazionale di Edimburgo). E’ un nuovo lavoro, varato nell’autunno del 2024 ad Anversa, che si presenta come un’insolita rilettura attualizzata di ‘Le opere e i giorni’ di Esiodo, sempre rigorosamente senza una parola di testo.  

 Proprio sotto al palco ormai buio e abbandonato, ci si è ritrovati con una folta pattuglia di appassionati, in prevalenza giovani donne, come bloccati lì davanti, per riprendersi dall’epilogo catartico come da prescrizione classica (Aristotele) e insieme doloroso come ‘una stretta alla gola’, per il distacco appena consumatosi. Anche se è finito senza nemmeno ‘il sesto atto’ della calata di sipario (Szymborska), ma solo con lo spegnimento delle luci e il buio per qualche attimo, prima del rientro in rigoroso accappatoio anch’esso nero dei protagonisti. 

 Del resto, nella finzione erano quasi tutti morti, in primis i quattro della formazione originale FC Bergman (Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck), e sono stati immobili per terra, belli nudi come mamma li ha fatti, coi corpi quasi lucidati. Certo, intimamente si vorrebbe vederli tornare da dietro le quinte, vestiti come all’inizio, in divise operose, sul grigio-blu.

Tra l’altro, nei crediti si nota la firma dei costumi, An d’Huys, professionista belga di fama, soprattutto nel teatro d’opera e musicale: quasi una scelta di campo, e pure in qualche modo un segnale che raddoppia l’insolita presenza in scena di due eclettici musicisti di jazz e contemporanea, autori della loro stessa ‘performance live’, Joachim Badenhorst e Sean Carpio, davvero sofisticata e insieme proprio divertente, in perfetta consonanza con lo stile della casa.

Tornando agli appassionati che non se ne vogliono andare, è normale desiderare di veder ricominciare subito lo spettacolo, ma alla fine si va sotto il palco anche semplicemente a scrutare ancora per pochi minuti qua e là, (attenzione: spoiler!) sorridere di nuovo per quella distesa di ananas di plastica che sono saltati fuori dal terreno nel finale, insieme con tanti bastoni colorati non bene identificabili. 

 Che sia per una sorta di piccolo feticismo non patologico o semplicemente per il bisogno di prolungare l’incanto in una pseudo-elaborazione del lutto, i più appassionati si sentono sospinti a restare ancora un po’ lì davanti a stupirsi, a provare a carpire qualcosa, a chiacchierare ammirati, magari a scattare una foto.

  Riportare onestamente gli scambi d’opinione durante questo post-finale, considerando anche che non viene naturale scrivere sul taccuino in momenti del genere, sarebbe solo una perdita tempo. C’erano soltanto meraviglia, stupore, ammirazione, tutto un ‘oh, oh’ e poco più.

 Pescando a caso, ma non proprio, ecco una giovane - si direbbe sui trenta e piacevolmente nerd -, vestita sportiva come un’appassionata di trekking e di montagna, quasi fiera d’aver riportato sul suo pile bianco candido minuscole tracce degli schizzi del sangue della gallina che il frontman Stef Aerts (che di questo ‘Works and Days’ è un po’ anche il primo autore) ammazza crudelmente, sbattendola per terra dentro a un sacco, quasi all’inizio dello spettacolo. 

 Un’altra giovane vicina di prima fila faceva notare che invece ne aveva ricavato una piccola ‘tikka’ di pseudo-plasma sulla fronte, per fortuna minuscola. Ovviamente non era vero sangue, dall’odore e dalle macchioline sembrava caramello colorato; e altrettanto ovviamente la gallina vera che aveva scorrazzato in giro per due scene, era stata sostituita con un fantoccio nel sacco. Davanti al guardaroba, per giunta, si è subito parlato dell’eventualità che un giro in lavatrice non bastasse a toglierne del tutto le piccole tracce dal pile, ma questa è cronaca spicciola.

Fumiyo Ikeda, performer storica Rosas di De Keersmaeker, nel finale di 'Works and Days' (foto di Kurt Van Der Elst da toneelhuis.be)

 Venendo alla sostanza, come hanno spiegato Stef e Marie Vinck in una conferenza stampa del Piccolo su Zoom, prima di partire per Milano dal Belgio, la scelta di ‘temi macroscopici’ fa parte della dichiarata ambizione di FC Bergman.

Dopo aver in qualche modo elaborato, con una lunga gestazione forzata da Covid, il precedente spettacolo ‘The Sheep Song’ sul passaggio dal Medioevo al Rinascimento e sul potenziale di effettiva libertà dell’individuo, hanno scelto di mescolare l’ispirazione dell’antico poema didascalico sul lavoro dell’uomo nei campi con la suggestione delle ‘Quattro stagioni’ di Vivaldi, per parlare della frattura di civiltà - che oggi appare irreparabile - tra il Neolitico e il mondo post-industriale.

 ‘Works and Days’ è sì dunque anche uno spettacolo in qualche modo ambientalista, come ha ammesso Aerts, però gli FC Bergman, pur proponendo temi forti, vogliono programmaticamente ‘non far sentire in colpa il pubblico’, ma sempre e soltanto casomai stimolare una riflessione.

Così in questo caso più che sull’ecologismo vanno a parare sul richiamo alla rifondazione di un rapporto più vero dell’uomo con il lavoro e con la terra, 'ciò di cui ci sarebbe più bisogno', sottolinea Aerts, 'in un momento di sfrenato individualismo dominante qual è quello che stiamo vivendo oggi'.

 Queste le intenzioni perlomeno. E il risultato è apparso esattamente in linea, con la consueta creatività teatrale, senza parole ma pure senza calcare la mano troppo sull’impiego del corpo. E’ una questione di dosi, anche il performativo. E dal punto di vista teatrale puro, al solito, alcuni quadri di immagine sono incantevoli, le varie trovate indovinatissime, perfetto l’amalgama con i musicisti e quel pugno di nuovi ingressi nel cast.

Tra questi ultimi si nota una bambina di 8-10 anni, a sorpresa, per chi aveva letto le avvertenze del co-produttore Piccolo teatro, che oltre al canonico ’Spettacolo senza parole’ delle locandine FC Bergman, stavolta portava in neretto anche: ‘Consigliato a partire dai 16 anni. Sono presenti scene di nudo’.

 Ancora sul cast va segnalato il contributo di una performer d’origine giapponese, Fumiyo Ikeda, che vanta tra l’altro vent’anni di lavoro in compagnia con Anne Teresa De Keersmaeker, e si gioca da sola con il robottino di un E.T. (spoiler!) il denso finale della Sopravvissuta alla catastrofe ecologica, muovendosi prima di tutto in una sorta di grandioso quadro tragico, che ricorda vagamente anche un’opera di Segantini, ‘Inverno’. 

Per associazione, dall’aratro fatalmente bloccato come un macigno nel mondo dopo, si può così tornare allo strepitoso inizio di ‘Works and Days’, con la distruzione delle assi di legno del palcoscenico per preparare la semina di coriandoli, funzionale sì al racconto della prima civiltà contadina ma anche d’irresistibile lettura metaforica del rapporto con il teatro. 

 Forse, visto nel contesto di una sala così poco amata e infelice come lo ‘Strehlerone’ a Milano, l’entusiasmo con cui viene perpetrata la distruzione del palcoscenico si traduce in una trappola interpretativa. E forse altrettanto è successo con la prima dozzina di repliche, da fine settembre del 2024, che il teatro di Anversa Toneelhuis, dove i quattro FC Bergman sono incardinati nella direzione collettiva, ha voluto piazzare proprio nella splendente sala neoclassica del Bourla.

 Ma, simpatie o antipatie per questo o quel modello di teatro borghese, bisognerà pure riaprire questo che appare un discorso di fondo, quasi la precondizione, nell’ambiziosa poetica ‘post-teatrale’ di FC Bergman.

 Del resto, l’altra sera a Milano, nell’atrio davanti all’uscita, qualche dramaholico più sapientone e fortunato raccontava sottovoce di aver avuto occasione di rivedere nel 2023, alla Biennale di Venezia, il capolavoro di FC Bergman ‘Het Land Nod’, che risale ormai a dieci anni fa ed è passato nei pochi selezionati festival in grado di garantire una location ad hoc (che fosse un capannone industriale dismesso di Mestre o una vuota hall della fiera, come ad Avignone o a Bologna per Vie). 

 ‘La Terra di Nod’, per spiegarci in poche parole necessariamente virgolettate, è uno spettacolo ‘storico’, che si può inserire nello sparuto elenco dei ‘più belli’ e dei ‘più importanti’ dopo il Duemila, ché si fa fatica a trovarne di uguali, per ambizione di portata culturale e pure livello di godibilità. 

 Viene da citare subito, come esempio più recente al pari livello, il quasi kolossal ‘Liberté Cathédrale’ che Boris Charmatz con Terrain ha creato poco dopo essere stato chiamato a Wuppertal a guidare la storica di compagnia fondata da Pina Bausch. Evento pure questo di un’assoluta natura post-teatrale, concepito per l’interno notturno di un grande Santuario mariano vuoto, nel settembre del 2023, e poi riprodotto perfettamente in spazi analoghi. 

 Sì, ci sarebbe da mettere sulla bilancia forse anche l’edizione integrale del più noto ‘Triptych’ dei Peeping Tom, nel 2020 (con le tre parti di seguito, The missing door, The lost room e The hidden floor) ma poi bisognerebbe allargare i confronti al teatro ‘di parola’ e qui si va facilmente a litigare con tutti. E ‘La Terra di Nod’ resterebbe pur sempre a battersela in cima alle classifiche.

 Certo il livello e l’intreccio dei temi ha un peso non indifferente: un conto è partire dalla distruzione del museo che contiene una maestosa crocifissione di Rubens e arrivare al cuore del problema culturale dell’Europa di oggi come per ‘Het Land Nod’; un altro è provare a stringere in un’ottantina di minuti giocosi e visionari il tema del rapporto uomo-lavoro-natura nell’arco temporale dell’intera civiltà, per giunta sul palcoscenico di un teatro.   

 A controprova dell’importanza, per le migliori proposte performative, dello status extra-teatrale, basta dare un’occhiata alle attività di Thomas Verstraeten, che non è propriamente il direttore artistico di FC Bergman ma quasi, ed è l’unico che si è ritagliato anche uno spazio professionale di rilievo da solo. Thomas compare a parte, come singolo, nell’organigramma del Toneelhuis, dove è corresponsabile della nuova iniziativa ‘Artists Unlock the City’, adottata poi anche al nostro Piccolo. 

 Sul sito personale Verstraeten si presenta come artista specializzato in ‘narrazioni sui movimenti della città e dei suoi abitanti, sulle loro storie e vite visibili e nascoste. Nei suoi video, installazioni e spesso spettacoli partecipativi, l’ordinario è teatralizzato nello straordinario’. 

 Dopo aver dato vita a vari progetti di teatro partecipato nel quartiere multiculturale Seefhoek di Anversa - storicamente conosciuto come Faboert, ovvero ‘periferia’ -, ora sta preparando per dicembre un’insolita ‘Sinfonia per un centinaio di cittadini e traffico leggero’, dove i suoni di una grande orchestra di volontari non professionisti, pescati per l’occasione da tutte le zone di Anversa, s’incrociano con i rumori di vari mezzi di trasporto, moto, auto e furgoni della città.

 E’ molto interessante anche l’impegno imminente di Verstraeten, per il 7-8 giugno, alla prestigiosa manifestazione di Wiener Festwochen, dove è stato chiamato dal direttore Milo Rau ad animare un’installazione multipla nella Donauinsel, uno spazio d’origine artificiale che fu costruito come argine contro le inondazioni del Danubio ed è considerato da molti viennesi una sorta di isola dell’amore.

Marie Vinck in 'Ne Mobliez Mie' di FC Bergman, film e spettacolo del 2023 che ripresenteranno nel '26 (foto di Rubens Impens da toneelhuis.be)

 L’implacabile calendario di Toneelhuis per FC Bergman prevede un vero e proprio nuovo spettacolo completo e ambizioso, ‘Guernica Guernica’, al debutto dal 16 settembre per la prossima Triennale della Ruhr, nella suggestiva location post-industriale della Jahrhunderthalle di Bochum.

Il tema sembrerebbe un po’ simile alle interrogazioni poetico-politiche dello stesso Rau, ossia l’impossibilità di raccontare la guerra e il limite della rappresentazione della violenza. Tant’è che dal Festival delle Arti tedesco lo spettacolo partiva già con il titolo di lavoro 'Viva Guernica' bello bollato con: ‘Raccomandato ai maggiori di 16 anni’, e tanto d’avvertenza sulla riproduzione dei rumori dei bombardamenti, che sarà così realistica che verrano fornite agli spettatori ‘protezioni gratuite per l’udito’.

 E non è finita: per il 2026, dal 19 maggio al 21 giugno, Toneelhuis annuncia già in cartellone la ripresa di ‘Ne Mobliez Mie’, performance già registrata anche nei film presentati da FC Bergman nel 2023 per una mostra al castello di Gaasbeek, ispirati alle fotografie che si era scattata l'ultima signora proprietaria dell’antica dimora, vestita da uomo in abiti medievali. 

 E’ un curioso racconto metaforico sul tema di fondo del naufragio dell’umanità dentro la smania di auto-rappresentazione. E uno spettacolo che finalmente riconosce un congruo spazio da solista per l’unica donna del gruppo, Marie Vinck, che pare abbia modo modo d’esprimersi al meglio in un contesto definito ‘opprimente e alla Lynch’, ‘nella parte di una donna meravigliosamente intrappolata nella sua stessa immaginazione’ (così scrivono i recensori belgi e olandesi che hanno avuto modo di vedere le prime rappresentazioni, due anni fa). 

 Chissà che ‘Ne Mobliez Mie’ non arrivi prima o poi anche in Italia. Per ora il Piccolo teatro, che con Claudio Longhi ha costruito questo asse con Toneelhuis e l'eccellenza fiammingo del post-teatro ‘senza parole’, ha giocato la sua fiche di co-produttore su ‘Guernica Guernica’. Che, peraltro, sarà un’inevitabile banco di prova decisivo delle capacità di esprimersi a fondo su contenuti complessi (la guerra, l’arte e l’orrore) nonché del rapporto stesso con il teatro di questo collettivo che negli anni Venti del Duemila si è ripresentato, dopo la pausa forzata del Covid, più produttivo che mai.  

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