Il dramma del drammaturgo che sale in taxi per andare a teatro fuori orario e deve rispondere alla domanda: ma che lavoro fa?
10.12.2024
Scuotendo l’albero della normalità possono cadere frutti più freschi. Appunti sulla mostra L'arte inquieta (con un cenno a Sam Mendes)
Per inquadrare ‘Marksteiner..? Großmutter…’, omaggio del 2000 alla nonna di un ormai sessantacinquenne August Walla, basta anche solo ripubblicare la notizia d’agenzia della sua scomparsa - seppur d’un’altra epoca, decisamente, ‘pre-woke’ e pure pre-euro: ‘Vienna, 9 luglio 2001. Il pittore austriaco August Walla, il capofila della cosiddetta ''arte folle'', è morto all'età di 65 anni in seguito a un cancro, stando a quanto si è appreso. Walla, che soffriva di schizofrenia, era uno degli ospiti fissi della clinica psichiatrica di Gugging, nei pressi di Vienna. Nel 1981 entrò a far parte della ''Casa degli Artisti'', una dependance colorata della clinica austriaca, creata dal noto psichiatra Leo Navratil, come sperimento dell'applicazione dell'arte alla psichiatra con fini terapeutici. Walla è considerato il più brillante e straordinario degli artisti ''matti'': da qualche anno i suoi quadri hanno raggiunto prezzi che superano i 50 milioni di lire. Secondo l’illustre critico d'arte austriaco Michel Thevoz, Walla e i suoi compagni (Johann Hauser, Otto Prinz e Oswald Tschirtner), appartengono senza dubbio alla grande famiglia dei maggiori pittori del XX secolo. I quadri degli ospiti di Gugging hanno fatto il giro del mondo negli ultimi 20 anni: sono stati esposti a New York, Parigi, San Paolo, Vienna, Venezia, Genova’.
Oggi si direbbe semplicemente che Walla è stato uno dei più noti esponenti dell’art brut, un tempo detta anche outsider art o arte alienata; della Haus der Künstler dell'ospedale psichiatrico Maria Gugging di Klosterneuburg/Kloburg, dove Walla ha trascorso più di trent’anni di vita, si potrebbe dire che rappresenta una sorta di scuola viennese di questa corrente artistica connotata, tra l’altro, da un’iper-produttività: come tanti esponenti dell’art brut, Walla disegnava continuamente e quasi ovunque, oltre che su carta o su tela, sulle pareti e sugli arredi della sua stanza, sui suoi averi, sui muri esterni sia dell'ospedale in cui viveva sia delle case vicine, ha realizzato persino disegni a gessetto sulla carreggiata….
‘L’arte inquieta’, mostra tematica allestita nel Palazzo Magnani di Reggio Emilia, racconta ‘l’urgenza della creazione’ di Walla come di altri importanti esponenti dell’art brut per mettere a confronto questi ‘paesaggi interiori, mappe e volti’ con opere di grandi riconosciuti del Novecento e dell’arte contemporanea, ‘da Paul Klee ad Anselm Kiefer’, recita la chiusa della frase completa che è stata posta dopo il titolo di questa esposizione. L’invitante funambolismo dei nomi nel sottotitolo poi si concretizza in un copia della litografia di Klee del 1923 intitolata ’Seiltänzer’ - coraggio, pensatori: manca giusto un Benjamin che trasformi quest’opera in un altro ‘Angelo della storia’ - e in un complesso autoritratto di Kiefer del 1995, abitualmente di casa al Mart, con sovrascritto in tedesco ‘Tengo tutte le Indie nella mia mano’. Ben aldilà del doppio K di richiamo, questa mostra è un’occasione da prendere al volo (chiude il 12.3.2023), perché offre davvero tanti spunti d’approfondimento. Lo si coglie bene anche in maniera mediata, attraverso il ricco catalogo stampato da Silvana Editoriale, un volume che sicuramente ha il merito di allargare l’itinerario illustrato dai curatori (due specialisti di formazione psichiatrica come Giorgio Bedoni e l’austriaco Johann Feilacher, più lo storico dell’arte Claudio Spadoni), con le schede biografiche sui 57 artisti selezionati (a cura di Silvia Cavanchi), e vari approfondimenti, tra cui un testo dell’antropologo Marco Aime che mette l’accento sulla diversità come fattore d’innovazione culturale nella storia umana: ‘Scuotendo l’albero della normalità possono cadere frutti più freschi’.
Centrale, aldilà dell’ottimo scouting tra le opere di art brut, il lavoro dedicato al patrimonio artistico dell’ex ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, caso unico in Italia di tempestiva ‘musealizzazione’ delle attività e delle cartelle cliniche di alcuni ricoverati, che viene raccontato in due saggi del catalogo. Il cuore pulsante della mostra reggiana è infatti nei grandi pannelli a muro colorati rosso che riuniscono proprio le opere di alcuni artisti di casa al San Lazzaro, anonimi, o non ancora così noti, accostati con cura non solo ai quadri dei più celebri ‘cugini di campagna’ Ligabue, Pietro Ghizzardi o Carlo Zinelli, ma anche a opere iconiche di artisti davvero famosi dell’intero arco degli innovatori del Novecento, da Jean Dubuffet a Keith Haring, con una spiccata attenzione agli italiani (Carla Accardi, Alighiero Boetti, Emilio Isgrò, Maria Lai e altri). Fa una certa impressione, per esempio, ammirare nelle prime stanze alcune tempere di un paziente L.B. a confronto con un singolare inchiostro a china di Henry Michaux, intellettuale e poeta irregolare, considerato un vero e proprio maestro post-surrealista e pre-hippy. Questo Michaux, insieme con altre opere tra cui una Composizione astratta di Sam Szafran, mostra al visitatore de ‘L’arte inquieta’ il contributo dei prestiti da una particolare collezione privata parigina, la drmb di Jean-Gabriel de Bueil & Stanislas Ract-Madoux, impostata ammirevolmente sull’asse ‘emozione-connessioni’. Ovviamente è stato fondamentale il contributo anche di istituzioni specifiche, come il Museo Gugging austriaco o la Casa dell'Art Brut di Mairano di Casteggio.
Badando a tenersi ben lontani da facili ‘follie’ d’artista, i curatori de ‘L’arte inquieta’ hanno voluto costruire, spiega il professor Bedoni, ‘un percorso espositivo lungo le traiettorie delle metamorfosi moderniste, di quella storica linea primitivista, sintetica e immediata, figlia di sguardi d’avanguardia primo Novecento che hanno valorizzato come casi esemplari per nuove poetiche opere nate in stanze manicomiali e produzioni artistiche nate in scenari extraeuropei. Le stanze espositive raccontano di un viaggio nel cuore dell’identità, visibile nella tensione della linea espressionista, con i suoi cromatismi accesi rivolti ad una nuova fisiognomica che, incrinando le certezze dell’uomo occidentale, portava alla luce identità perturbanti’. Assolutamente emozionante è anche l’impatto con la parte finale delle 140 opere valorizzate da questa mostra, che si apre con l’ultimo muro rosso contenente una serie di disegni di due artisti di prim’ordine della collezione del San Lazzaro, i paesaggi metafisici di Giovanni Righi e le singolari mappe, firmate Fritz o Weit Plausher (= chiacchierone mondiale), di Federico Saracini. Rubando ancora le parole di Bedoni, che insegna Terapeutica artistica all’Accademia di Brera, ’l’arte inquieta rivela talvolta la natura delle cose, le sue opere attraversano la scena contemporanea intuendo la realtà viva di questo mondo, ne vedono il buio ma sanno afferrare la luce’.
Senza per forza scomodare anche Jung e la sincronicità, per una significativa coincidenza gli squarci di luce dal buio de ‘L’arte inquieta’ si sono offerti agli ultimi visitatori di marzo in parallelo con l’uscita nelle sale cinematografiche di ‘Empire of light’ girato da Sam Mendes a Margate, nel Kent: un capolavoro d’amore per il cinema, per la vita e per la solidarietà tra le persone, non recepito come tale - guardacaso - dalle lobbies degli addetti ai lavori e della critica, nonostante la straordinaria interpretazione di Olivia Colman, che le è valsa agli ultimi Golden Globe il testa-a-testa come miglior attrice drammatica con la telefonata vincitrice Cate Blanchett di ‘Tàr’ (agli Oscar per ‘Empire of light’ corre solo il direttore della fotografia Roger Deakins…). E’ proprio anche nella poetica proposta di una figura come la Hilary di Mendes, modellata secondo alcuni sulla madre stessa dell’autore e regista, che lo spettatore può in qualche modo vedere più da vicino la difficilissima concretezza di riuscire a vivere profondamente tra buio e illuminazioni, condizione da cui gli esponenti più significativi dell’art brut hanno lasciato, a noi lontani normali, opere tanto inquietanti.