'Sta minga a rognà, appassionato milanese, se questa settimana ci sono troppi appuntamenti da non perdere
09.11.2024
Come è volato via bene da Milano anche 'Il Gabbiano' di Leonardo Lidi, altro che 'povero' teatro
Poveretta la giovane vicina di fila 8, sarà una ‘diversamente udente’? Nonostante la speaker del Piccolo Teatro di Milano inviti chiaramente a silenziare e nascondere i cellulari, sottolineando pure con la dovuta enfasi anche quanto la luminosità degli schermi infastidisca gli altri spettatori, eccone un’altra che mette via in borsa lo smart-phone, sì, ma lo lascia collegato allo smart-watch, manco fosse Giorgia Meloni che deve reggere le sorti della Nazione anche durante uno spettacolo teatrale.
E così è stato solo quel piccolissimo e inutile fastidio dell’accendersi-spegnersi di spot sull’orologino della vicina, che ha potuto appena appena disturbare la quasi estatica visione della prima tappa del Progetto Čechov di Leonardo Lidi, con l’altalena intrigante tra il comico e il tragico, tra l’amore e la quotidianità, tra la gioventù e la fine, tra il teatro e la vita, che ‘Il Gabbiano’ propone sulla carta e che questa ammirevole regia ‘povera’ è riusciuta a rendere bene.
Tornando al mancato oscuramento dello smart-wacht, poteva invece far parte del gioco a ritmo alternato del copione, in consonanza, lo slalom con la testa dell’entusiasta spettatore davanti, un signore borghese maturo seduto in fila 7 posto 20 Dx, che ogni tanto spostava il busto a destra per commentare, sussurrando parole d’elogio all’orecchio della sua accompagnatrice.
Gli applausi convinti del pubblico da tutto esaurito della penultima replica milanese, al sabato sera del 15 aprile, hanno accompagnato le ripetute uscite di scena degli attori, giustamente felici e orgogliosi, anche se si poteva intuire che certo qualcuno, come in un testo di Čechov, sarebbe rimasto lì combattuto a metà strada tra la soddisfazione e il rimpianto di dover chiudere le valigie per tornare a casa: la pomeridiana domenicale dell’indomani avrebbe chiuso la lunga tournée cominciata a Perugia nel novembre scorso, dopo il fortunato esordio al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Riposo garantito, sì, ma non per tutti nè per troppo tempo. C’è da provare già la seconda tappa del Progetto Čechov, in cartellone per l’ultimo fine settimana di giugno allo stesso Spoleto Festival, tornato allo splendore nelle mani capaci di Monique Veaute (la manager culturale che ha lasciato Parigi per sbarcare nella capitale italiana ai tempi gloriosi delle Estati romane di Nicolini, e ha poi fondato e diretto a lungo il Romaeuropa Festival, contribuendo a farne una manifestazione di così grande rilievo).
Sarà un caso, ma per la cronaca non si può non notare che resteranno con Lidi anche per il prossimo ‘Zio Vanja’ quasi tutti gli attori del più che convincente cast di questo primo spettacolo cechoviano: da Giordano Agrusta, il maestro ossessionato dallo stipendio e così teneramente goffo, a una perfetta nevrotica MaŠa Ilaria Falini, che insieme regalano una bella risata dopo una buffa accelerazione che spezza la tensione dell’inizio, e poi gli altri bravissimi (Maurizio Cardillo, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna); non saranno invece della compagnia - si noti bene - soltanto ‘Kostja’ Christian La Rosa e ‘lo zio Petr’ Orietta Notari, cioè i validissimi interpreti dei due personaggi che chiudono così malinconicamente ‘Il Gabbiano’, proprio già da morti, in mezzo alla griglia delle luci che è calata in scena a imprigionarli, come in un aldilà che si spera più benevolo dell’aldiquà del ‘maledetto’ sentimentalistico lago.
Sono scherzi magici del teatro, anche questi: c’è la volta che un po’ si può morire per davvero, e fa impressione, in fondo, anche perché viene dopo un testo così intriso della tematica dell’inganno romantico nella letteratura e nel teatro stessi. La Rosa, peraltro, può sempre vantare d’essere stato primo attore nel precedente de ‘La Signorina Giulia’, messo in scena da Lidi nel ’21-’22, dove erano nel cast anche Ilaria Falini e Nina-Giuliana Vigogna (classe ’88, già promettente allieva della Silvio d’Amico, per fortuna ancor non triturata dalla fama televisiva di ‘Un posto al sole’).
In ogni caso se, nonostante lo squilibrio naturale dovuto alle esperienze in curriculum e ai ruoli dei vari attori, Lidi ha pensato bene di confermare, di questo stesso cast, tutti quelli che poteva ricollocare nella seconda tappa del suo progetto, lo spettatore può convenire a pensare che è perché se lo sono proprio meritati, di fare compagnia. Anche solo per quell’incantevole momento in cui ballano sempre più lentamente giocando a tombola e insieme invecchiano, prima di lasciare il palcoscenico, come in una sorta d’immagine fiabesca in time-lapse con cui il regista imprime la svolta finale alla rappresentazione.
Ma sono diversi, anche già durante gli altri tre atti, i momenti che da soli si sarebbero meritati il prezzo del biglietto, uno su tutti l’esilarante corteggiamento alla giovane ingenua Nina del mediocre spregiudicato Trigorin (non a caso affidato a un attore laureato e si direbbe ormai accademico come Massimiliano Speziani, co-fondatore con Renata Molinari anche della bella Bottega dello Sguardo di Bagnocavallo).
Di sicuro, Lidi ha voluto comunque imprimere un taglio generale così poco italiano e aulico alla recitazione, in media trattenuta, anche se poi a toni diversamente bassi, a secondo dei momenti e dei personaggi, coerentemente con un allestimento al limite del teatro povero degli anni gloriosi.
Una vicina di poltrona erudita e snob quel tanto che basta, alla fine faceva notare: in fondo è così bello che un attore tutto sommato ancora giovane come Lidi, trentacinquenne, possa fare riferimento a uno stile di messa in scena che è stato proprio delle avanguardie negli anni Sessanta e Settanta, prima di diventare la cifra di un teatro artistico dichiaratamente non commerciale che ha avuto in Peter Brook forse la più luminosa figura; un’eredità verso cui, per esempio, aveva manifestamente guardato anche un illustre collega di Lidi, di una generazione prima, come Fausto Russo Alesi, quando è passato dietro le quinte per portare a teatro il romanzo ‘Padri e figli’.
Un relais che scatta inevitabilmente, ai pochi fortunati che hanno visto entrambi gli spettacoli, dopo che il titolo più noto di Turgenev è stato appena tirato in ballo come pietra di paragone dal povero Trigorin, nel momento in cui prende coscienza di quanto per lui sia irraggiungibile il livello dei capolavori russi e dei veri gloriosi scrittori, di Gogol, di Tolstoi.
Che cosa si potrebbe aggiungere dopo il plagio del commento sagace di 8, 22/Dx? Allargando il tema, al cronista anche in questa occasione viene da notare quanto sia un vero peccato che il pubblico non disponga di dati certi sul mondo del teatro italiano, per non dire di quell’opacità di fondo che copre il complesso meccanismo dei criteri per la distribuzione dei finanziamenti ministeriali o per le nomine più importanti (basti pensare al poco edificante cambio di poltrona di cui si vocifera per la sovrintendenza del Teatro alla Scala, proposta dal governo al numero uno attuale della Rai).
Se ci fosse più trasparenza, per esempio, siamo certi che il numero degli spettatori accorsi al Piccolo grande Teatro Strehler - che dispone di 968 posti tra platea e galleria - , per la sei giorni de ‘Il Gabbiano’ con la regia di Leonardo Lidi, se non è stato proprio da record, poco ci manca.
E fa piacere notare di aver già trovato lo stesso quasi tutto esaurito, e un analogo entusiasmo, in precedenti occasioni, come ‘La Tempesta’ versione Alessandro Serra, piuttosto che di aver visto le folte file in attesa d’entrare al ‘Romeo e Giulietta’ di Mario Martone e d’immaginare che s’annunci già un’altra bella festa di pubblico per il ritorno a casa di Massimo Popolizio, dal 9 al 21 maggio, con ‘Uno sguardo dal ponte’ (da non perdere, alla faccia di alcune critiche, per esempio, alla ‘sicilianizzazione’, che invece non dovrebbe sorprendere, dato che il testo di Miller parla delle vite dei ‘broccolino’ newyorchesi).
Che sia proprio il teatro-teatro a trainare il pubblico, e che il passaparola tra gli spettatori funzioni come e più dei battage mediatici, lo prova anche solo il fatto che questo ‘Il Gabbiano’, arrivava a Milano con qualche buona recensione alle spalle, dopo Spoleto e dopo il passaggio al Vascello di Roma, ma certo non con gli sbrodolamenti che hanno garantito altri pienoni.
Non c’erano nomi di star in locandina, e anche Lidi come regista non ha già la fama, per dire, di Alessandro Serra, è ancora solo un giovane dal futuro pur radioso, e in fondo non c’era nemmeno una scena capolavoro come l’albero di Margherita Palli per il ‘Romeo e Giulietta’ a riempire lo stesso enorme palcoscenico, era tutto nudo e nero, e pure quasi colonna sonora, solo una vecchia canzone e un’aria d’opera in tutto, e va detto ancora che proporre così quasi due ore di fila, senza intervallo, al giorno d'oggi sono una bella scommessa…
Alla fine bisogna fare i complimenti anche al Teatro Stabile dell’Umbria, e al direttore Nino Marino che oltre ad aver fatto bingo con ‘Chi ha paura di Virginia Woolf?’ di Albee riproposto da Antonio Latella per la superwoman degli attira-premi Sonia Bergamasco, ha avuto il coraggio di scommettere sul progetto cechoviano di Lidi, con l’avvallo in coproduzione di due primari Teatri Nazionali come Emilia Romagna Teatro ERT e Teatro Stabile di Torino, e la vetrina di Spoleto Festival dei Due Mondi.
Certo, titoli come ‘Il Gabbiano’ sono già di per sé stessi una garanzia di richiamo, ma paradossalmente la fama ne costituisce anche il fattore di rischio principale. E a proposito di scommesse, quanto puntereste sul successo del prossimo ‘Zio Vanja’, e quanto rischia di essere scontato che possano fioccare altri meritati premi su Lidi per l’atteso ultimo atto della trilogia, con ‘Il Giardino dei Ciliegi’?
Di tutte, la più ardua sarà questa sfida al capolavoro di fine carriera di Čechov, e Lidi si sottoporrà al confronto-scontro ideale con il modello ‘povero’ di Alessandro Serra, che ne ha fatto un adattamento originale tra 2019 e 2020 (il cui potere evocativo di suggestioni s’intuisce persino dal promovideo), ma non solo: casomai tornasse al Piccolo a Milano, se la vedrà con il mito dello storico allestimento strehleriano e, soprattutto, con il più fresco ricordo del capolavoro che da 'Il Giardino' ha tratto Lev Dodin, ché tra i pregiati spettatori che sono riusciti a vederlo alla fine del 2017, non pochi sono ancora lì idealmente a bocca aperta per l’ammirazione.