Isola e Tesoro, ma solo Nazione: metti Taiwan in tre caratteri, alle Colline Torinesi, nel gioco di specchi di Rimini Protokoll
29.10.2025
In mezzo alle grandiose e pure inquietanti foto in bianco e nero dei ghiacciai di Sebastião Salgado, al Mart di Rovereto l’11 settembre ha fatto irruzione François Chaignaud con un coloratissimo ‘Récital’ dedicato al mito fondatore della danza moderna, Isadora Duncan.
Chaignaud ha poi debuttato il 12, sempre a Oriente Occidente Dance Festival, con il nuovo ‘Último Helecho’, lavoro che intreccia la tradizione argentina alla cultura barocca, firmato insieme con la regista Nina Laisné e Nadia Larcher, cantante, compositrice e autrice di spicco della scena musicale folk e sperimentale di Buenos Aires.
In Francia è considerato una vera e propria nuova stella, in procinto di assumere la guida del centro coreografico nazionale CCN di Caen, in Normandia, ed è stato chiamato per il doppio debutto alla Biennale Dance Lyon e al Festival d’Automne Paris, due tra le manifestazioni più importanti d’Europa. Perciò si può proprio dire che il ritorno a Rovereto di Chaignaud sia stato uno dei grandi colpi di questa 45ma edizione del Festival.
Concesso un generoso bis per l’entusiasmo della piccola platea che ha avuto la fortuna di assistere al particolarissimo ‘Récital’, in cui Chaignaud ha anche cantato, l’eclettico protagonista ha ricevuto i complimenti personali di alcuni spettatori eccellenti. Si poteva notare la stella ‘glocal’ Antonella Bertoni (la prestigiosa compagnia Abbondanza-Bertoni ha sede nell’ex Cartiera di Rovereto), che ha seguito come un vero fan l’esibizione ‘Duncan style’ del collega ed è poi voluta andare ad abbracciarlo senza nascondere un filo di commozione.
In fondo, questa familiarità da distanza ravvicinata è il primo effetto cercato da una performance di questo tipo, che peraltro rinverdisce una tradizione storica, avviata dalla stessa Duncan, di brevi esibizioni extra-teatrali, in saloni privati o in luoghi museali dell’arte. Chaignaud ha persino avuto l’onore di portare il suo 'Récital', nell’autunno del 2021, persino davanti al capolavoro di Monet all’Orangerie, dove è stato ospite del ciclo ‘Danse dans les Nymphéas’.
Non si può non sottolineare di nuovo anche l’assoluta differenza di questo protagonista, che vanta un repertorio davvero vasto e tutto cult, eppure sembra a volte spingersi al limite del baratro del kitsch, riuscendo sempre abilmente a fermarsi in tempo, in modo naturale, così, senza nessun calcolo. Sicuramente questa abilità si deve prima di tutto all’accurata preparazione di ogni spettacolo come evento profondamente culturale.
Nel caso specifico Chaignaud s’è appoggiato all’assoluta competenza di Elisabeth Schwartz, ballerina, coreografa, storica e insegnante, che ha cominicato a studiare la danza di Isadora Duncan a New York con Julia Levien, riconosciuta prima specialista di questo repertorio, per poi ripresentarla a Parigi, dal 1984, sia come solista sia con la sua compagnia L’Onde, e anche collaborando con altri ballerini.
Non è affatto facile, per un corpo maschile di dimensioni considerevoli e di non più così giovane età (Chaignaud è nato a Rennes nel 1983), affrontare costumi femminili trasparenti e gesti così seduttivi, per non dire della particolarità tecnica di questo ‘Récital’, come ha ben spiegato lo stesso artista in un’intervista con Ilaria Bionda (nel dettagliato numero speciale de ‘Il T’ sul festival): ‘oggi la maggior parte delle movenze di danza partono dal bacino e dai piedi. Il lavoro di Duncan, che richiede forza, potenza e tecnica, è invece basato principalmente su un’estetica ondulata e sul movimento del plesso solare e dello sterno (…), che sembrano dare più fiducia alle emozioni umane’.
Ecco, a proposito di fiducia e di umanità, Rovereto brilla sempre anche per inclusività, a partire dallo sforzo di apertura nei confronti degli spettatori diversamente abili. Esemplare anche soltanto vedere al lavoro, spettacolo dopo spettacolo, un bel gruppo di accompagnatori e facilitatori in T Shirt nera con grande scritta ‘Accessibility Team’.
E se l’accessibilità è davvero una grande sfida aperta per il mondo dello spettacolo, in questa vivace 45ma edizione di Oriente Occidente veniva da pensare anche al problema della vera e propria intelligibilità della danza contemporanea, particolarmente quando è espressione di culture diverse e lontane. E' un passaggio, questo della comprensione delle alterità, che devono affrontare un po’ tutti gli spettatori e pure gran parte degli addetti ai lavori e dei cosiddetti esperti.
Sicuramente si poteva notare questo spinoso nodo, del livello per così dire di cognizione nella fruizione, affrontando alcune proposte della sezione Radici del festival, prima tra tutte ‘Nambi. The African Shieldmaidens’ (le fanciulle guerriere africane) della compagnia ugandese Batalo east (vedi più sotto) guidata dalla coreografa Nabaggala Lilian Maximillian, andato in scena nel Teatro Zandonai il 10 settembre e accolto con l’entusiasmo che si merita un lavoro così particolare.
Spettacolo di grande impatto con cinque diverse e meravigliose performer, tutte forza e allegria, che mescolano rituali ancestrali a urban-dance contemporanea per celebrare le grandi donne africane che hanno sfidato i tradizionali ruoli di genere e giocato un ruolo da protagoniste nella storia del Continente.
Già il nome della compagnia è tutto un programma, come ha spiegato la stessa coreografa in un’intervista con Chiara Marsilli: ‘La parola Batalo è ispirata al termine “bat” (battaglia), in riferimento al mondo della breakdance. Richiama anche la parola in lingua luganda ‘lutalo’, che significa guerra, e ciò vale come promemoria della lotta, della resilienza e della sopravvivenza. East (est) ci colloca nell’Africa Orientale, dove sono le nostre radici. Nel complesso, il nome evoca l’equilibrio costante tra tradizione e modernità, tra conflitto e creatività’.
Che poi l’avvincente spettacolo raccontasse ‘le storie della regina Nzinga, di Muhumuza che guidò la resistenza al dominio coloniale, e delle amazzoni del Dahomey, piuttosto che di altre regine combattive come Namasole, Lubuga, Songora e la principessa Bagaya, così come d’innumerevoli figure di donne di tutti i giorni la cui dignità e forza sostengono le nostre società’, lo poteva comprendere bene solo chi avesse letto attentamente il programma e magari pure un’altra articolata intervista della stessa Lilian Maximillian, a Stefania Santoni per ‘ilT’.
Ma la diversità culturale gioca davvero ancor più a nascondino con il pubblico tradizionale della danza, laddove raddoppiata dall’alterità generazionale, com’è stato il caso della prima di ‘A PARK + Tuonelan’ della giapponese Yoko Omori, giovanissima artista associata a Oriente Occidente, che si è ripresentata al Festival con un nuovo solo, distribuendo anche copie del breve testo diaristico d’accompagnamento, seguito dal suo primo lavoro di gruppo per cinque interpreti, tra cui lei stessa.
Proposta particolarissima, decisamente autoreferenziale-adolescenziale, di una performer che si dichiara consapevole e felice della sua stessa ‘piccolezza’, quasi crogiuolondosi nel rango sociale di 'perdente', ma anche una rappresentazione meravigliosamente ironica e (s)composta, con una sorta di collage di brevi movimenti quasi meccanici, da street dance, come se fosse una collazione di video da TikTok.
Mentre applaudivano entusiasti, in sala all’Auditorium Melotti del Mart, i ragazzi delle scuole di danza, tra le file degli espertoni, giornalisti, coreografi, insegnanti di danza e via elencando, si sono sentite soprattutto sbrigative critiche che si sono concentrate sulla pochezza dell’insieme, sulla natura acerba della proposta e sulla sfrontatezza della dissacrazione (per esempio del celebre ‘Bolero’).
Che una giovanissima creativa di cultura giapponese contemporanea possa presentare lavori minimalisti al limite della fragilità non dovrebbe invece stupire nessuno, e chissà poi che cosa avrebbe potuto dire una Yoko Omori di ieri sedendosi in poltrona e vedere le prime prove di tanti coreografi europei da grandi palcoscenici.
Se ci si guarda intorno, nella società sono pur sempre le nuove generazioni che dettano le mode, e oggi, per esempio, si attaccano alle borsette i Labubu di Pop Mart - oppure i Chiikawa evocati dalla stessa Omori nel suo solo, pupazzetti di personaggi degli anime più famosi - anche le signore borghesi, per toglierseli magari quando devono andare a far figura alla Scala o in contesti che si pretendono ancora eleganti.
Certo, per tornare in tema di proposte giovanili e diverse, come quella della Omori, il neo-nominato ‘consulente artistico’ dello storico direttore del festival Lanfranco Cis, l’acclamato e iper-attivo creatore Marcos Morau, presenta spettacoli decisamente più intelligibili a noi europei, stracarichi d’evocazioni di immagini dell’arte, del cinema e della letteratura, teatralmente avvincenti e pure massimalisti, fino al barocchismo, intrisi di riferimenti decisamente universali e di peso alla morte, che ultimamente li fa assomigliare quasi delle pseudo-cerimonie religiose.
Per Oriente Occidente ha promesso - nella conferenza finale in cui s’è presentato con la consueta divisa da ragazzone, pantaloni corti e t-shirt, stavolta una maglietta con vistosa scritta ‘Iconic sports’ - che s’impegnerà a trovare e a proporre nuovi talenti agli esordi, o poco più, come poteva essere lui stesso, che oggi ha 42 anni, fino a una decina di anni fa.
Speriamo non siano scelti proprio tutti con lo stampino, ovvero tra i Morau’s, altrimenti bisognerà rimpiangere l’acerbo nippo-minimalismo da ‘Omori Park’.