Il dramma del drammaturgo che sale in taxi per andare a teatro fuori orario e deve rispondere alla domanda: ma che lavoro fa?
10.12.2024
Sveglia, milanesi! Sarete anche i numeri uno per qualità della vita, ma una bella lezione d'umanità ci vuole
Lacrime che saranno andate perdute, nella canonica pioggerella sottile di un’inquinatissima Milano del 19 novembre sera, se ne sono viste parecchie, ma niente navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e nemmeno un balenio di raggi B nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
Eppure…Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, sarebbe l’incipit giusto di un piccolo racconto anche sull’accoglienza del pubblico della prima al Piccolo Teatro Strehler de ‘Il risveglio’ di Pippo Delbono. Uno spettacolo immenso, di teatro e di umanità, di pathos e di compassione, di poesia e di catarsi.
Non ci sarebbe nemmeno bisogno di tornare a parlarne, se non fosse anche solo per l’elegante snood scuro che una giovane signora ha portato in regalo a Pippo Delbono durante il lunghissimo giro d’applausi...
...ché, senza quel metro di troppo sul palcoscenico ci sarebbe stato il bis del finale della recente replica torinese, per il Festival delle Colline, al teatro Astra, dove la platea va verso l'alto e così uno spettatore agée dalla prima fila si è potuto unire in scena ai movimenti della Compagnia e di Bobò dietro, sul grande schermo.
Un dramaholico di casa sostiene che la fan milanese in questione fosse una rispettabilissima professoressa universitaria, e poi un’altra cattedratica piuttosto nota anche nell’ambiente si è alzata tra i primi per la standing ovation, dietro di noi in fila 7.
Incredibilmente, rispetto per esempio alla composizione media del pubblico in platea al Teatro Storchi di Modena, in casa dell'ERT che produce, per la seconda rappresentazione italiana de ‘Il risveglio’, a Milano l’età media dei presenti tendeva più alla fascia di mezzo, pure con tanti giovani di contorno, qualcuno di questi magari meno commosso o addirittura un po’ perplesso.
Bisogna saper lasciarsi andare, per apprezzare quel Teatro - con la T maiuscola e tutto il resto in rigoroso minuscolo (compresi scene, effetti, costumi e altri orpelli) - di cui Delbono è un campione assoluto. E certo, se non l’hanno studiato a scuola, che cosa possono ormai sapere gli spettatori delle nuove generazioni a proposito di una tradizione che adesso andrebbe etichettata con parentesi e virgolette ‘teatro (po)vero’, e che raggruppa ormai giusto un pugno di nomi tendenzialmente maltollerati dalle istituzioni?
Rivisto per la seconda volta, peraltro, ‘Il risveglio’ mostra quanto sia paradossale la semplificazione in emozioni che è propria dei lavori di Delbono, dove il paradosso è inteso per la ricchezza di contenuti e di riferimenti impliciti.
Ci si può letteralmente perdere dentro, a partire da quel finale - e dal titolo effettivo, anche se quello di lavoro era ‘La vecchiaia’ - preso pari pari da un racconto di Gianni Celati, ’Scomparsa d’un uomo lodevole’.
E’ il testo di chiusura delle ‘Quattro novelle sulle apparenze’, che la ‘sua’ Compagnia Extra di Quodlibet, eccellente realtà editoriale della migliore provincia italiana, presenta così nella ri-edizione ufficiale del 2016 (gli stessi testi erano stati pubblicati in Feltrinelli trent’anni prima’): ‘Quattro novelle filosofiche di un Celati pensoso. Nella prima un professore di ginnastica, Baratto, stanco della falsità delle parole, smette di parlare, con un mutismo solenne e buffo. I protagonisti delle altre novelle pure loro si sentono estranei ad un mondo fatto di parole cerimoniali e abitudini, il che ne fa dei dispersi che vagano nel mondo. Ma poi tutti alla fine devono constatare che c’è poco da fare: la vita è solo una trama cerimoniale per tenere insieme qualcosa d’inconsistente, a cui però apparteniamo’.
La chiusa esatta della storia davvero cupa di questo maturo signore dal cui memoriale muove Celati, vede un finale cinematografico sorprendente, reale o immaginario che sia, in cui il protagonista rompe la routine autodistruttiva per fuggire via con una compagna di lavoro e ribaltare la prospettiva di un opaco avvenire di cui sembrava fatalmente prigioniero.
Scrive Celati: ’Nell’ultima immagine che qualcuno avrà di loro, essi saranno in un grande pianoro tra le montagne, entrambi in costumi da alpinisti e bastone da alpinisti, in procinto di avviarsi verso le montagne innevate sul fondo. Cammineranno di buon passo e sempre con espressioni di lieta attesa, per andare dove? Dove? Ma chi può dirlo dove un uomo sta andando? Spesso si crede di saperlo ma è un errore’.
Così il finale del racconto, prima della frase fatta propria dal narratore Pippo: ’Tutto quello che si sa è che bisogna continuare, continuare, continuare, come pellegrini nel mondo, fino al risveglio, se il risveglio verrà’.
Pausa, per poi procedere al secondo finale, con ‘La Vie en rose’ in sottofondo per il saluto d’addio della Compagnia Delbono a Bobò e al pubblico.
Ora - sono dettagli, ma il diavolo si nasconde proprio lì - questa Scomparsa e le altre tre novelle del 1986 vengono presentate all’origine da Celati come una sorta di omaggio a Kafka, e in effetti di neo-kafkiano c’è tantissimo nel memoriale e mezzo dell’uomo lodevole - che siamo poi tutti noi, come chiunque può intravedere sempre dentro di sé, a un certo punto, nella notte, guardando quel doppio che è ancora là che cammina verso il non-so-dove ma continua, continua, continua, continua.
Giusto per non far cadere il discorso del parallelo con Delbono, va però notato che, non solo questi sono i primi testi narrativi di Celati dopo un lungo periodo di crisi e di ridefinizione, ma anche che, agli occhi degli studiosi più preparati, proprio questa quarta novella appare come l’esito più evidente di ‘un’affinità, se non proprio una filiazione, ineludibile’ rispetto alla poetica di Samuel Beckett (autore amato e frequentato persino come traduttore dal nostro ‘narratore delle pianure’).
E qui si potrebbe convocare un esperto vero (magari il ‘solito’ Gianni Manzella, che ci ha appena regalato un suo curioso saggio narrativo, ‘Delbono’, presso Luca Sossella editore) per aprire a parte un capitolo che banalmente si potrebbe chiamare ‘Da Beckett a Delbono’.
Già, anche solo in questo ultimo spettacolo c’è un preciso cenno alla differenza di vedute con Bobò relativamente all’interpretazione di ‘Aspettando Godot’. E poi sono trasparenti - e forse meglio proprio ‘traslucenti’ - le reminiscenze beckettiane, persino nella scena che viene allestita prima dell’esemplare passaggio sulla guerra.
Ancora, tra le sorprese che una seconda visione de ‘Il risveglio’ porta a cogliere scavando nella memoria di un boomer bolognese, procedendo liberamente per accoppiamenti, certe citazioni degli anni d’oro del giovane Delbono rimandano ancora a Celati, al ruolo magistrale di professore universitario che non interrompe le lezioni nemmeno nel periodo travagliato del ’77, ai suoi allievi in senso proprio, letterario, tra cui spiccano i più noti Tondelli e Palandri, e in senso esteso, molti leader del movimento, per esempio i fondatori di Radio Alice. E, per questa via, si torna pure ai Jefferson Airplane(1) che fanno da snodo a ‘Il risveglio’ di Pippo Delbono con un video d'antan e una parziale traduzione di ‘Volunteers’.
Ma torniamo allo Strehler. Nella ‘captatio benevolentiae’ introduttiva Delbono si spende in alcune battute positive su Milano, con un piccolo rimprovero relativo a una certa ‘bipolarità’ conseguente al vantaggio/handicap della ricchezza, che sulla carta permette tante possibilità, ma in realtà poi preclude troppo.
Combinazione in questi giorni si parla parecchio della classifica che vede la metropoli lombarda al primo posto per qualità della vita in Italia, e il dato comprende ovviamente anche l’offerta culturale. Sarà, però non si direbbe a giudicare dai risultati dei grandi teatri, primo tra tutti questo tempio architettonico intitolato a Giorgio Strehler.
Come era successo già per quel capolavoro assoluto che è ‘Tragùdia’ di Alessandro Serra, di nuovo anche per ‘Il risveglio’ non pare che i milanesi si stiano strappando i biglietti di mano, al netto delle prime dove si assiepano gli appassionati di Teatro e dei relativi nomi guida. Per i prossimi giorni di repliche di Delbono la piantina online dello Strehler appare ancora bella piena di punti rosso pallido in platea e quasi tutta gialla in galleria.
Senza titoli banali, senza protagonisti da palinsesti televisivi, senza facile intrattenimento, è come se non ci fosse più spazio per un grande pubblico. Che cos’è che non funziona bisognerebbe chiederlo agli esperti, e ora al Piccolo è arrivato come numero due un riconosciuto ‘mago del marketing’ ché saprà come affrontare anche il problema dei vuoti allo Strehlerone.
Per intanto non resta che raccomandare sommessamente ai milanesi che si possono permettere una qualità della vita da numeri uno in classifica, di non mancare questo appuntamento con l’umanità vera di un protagonista del Teatro. E magari di arrivarci, o di tornare a casa dopo, con le note di ‘Forgiveness’ di Armand Amar che riecheggiano negli auricolari, colonna sonora di ‘Human’ e pure di questo meraviglioso ‘Il risveglio’.
(1) Da “Alice vola, Alice è nell’aria” Su Gianni Celati, Alice disambientata e dintorni, di Silvia De Laude, in 'Engramma 161', dicembre 2018: 'Nel ’75 il professore di letteratura inglese, Gianni Celati, che è anche uno scrittore, tiene un seminario su ‘Alice nel Paese delle meraviglie’ di Lewis Carroll e la letteratura nonsense di età vittoriana (...): dal seminario di Celati era nata già nel ’76 anche una radio, Radio Alice appunto, che aveva aperto le sue trasmissioni il 9 febbraio, trasmettendo ‘White Rabbit’ dei Jefferson Airplane, e questo commento: “Radio Alice, dunque, e questi sono i Jefferson Airplane con White Rabbit, bianco-coniglio: ‘va a domandarlo ad Alice, penso che lo sappia / quando logica e proporzione sono cadute fradice e morte, e il bianco cavaliere parla alla rovescia / e la Regina rossa è lontana con la sua testa’”. Cito da Bifo, Gomma 2002, 303; il volume del 2002 riprende un libretto uscito sulla radio in presa diretta, Cappelli, Saviotti 1976, altro volumetto dell’Erba voglio, attribuito al collettivo “A/traverso”, il cui titolo per intero suona Alice è il diavolo. Sulla strada di Majakovskij, testi per una pratica di comunicazione sovversiva, e dove si legge, per esempio, che “il soggetto cambia. Il nuovo soggetto è collettivo e non parla. O parla quando pare a lui. Il silenzio: un buco. Lasciamo che i buchi diventino più grossi, non impauriamoci degli orifizi, cadiamo dentro e passiamo dall’altra parte: il paese delle meraviglie” (Cortellessa 2007, 131).