Il dramma del drammaturgo che sale in taxi per andare a teatro fuori orario e deve rispondere alla domanda: ma che lavoro fa?
10.12.2024
Va bene 'la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme', ma... torna subito a mangiare Monica!
Non sembra gigantesca, oggi, la sala del Teatro dell’Arte a Milano, nel palazzo di viale Alemagna progettato da Giovanni Muzio, eppure può contenere mezzo migliaio di spettatori. E’ dunque difficile, alquanto, cercare di capire che cosa si dicono tutti alla fine di uno spettacolo ‘sold out’.
Si sta bene accomodati sulle poltrone acquistate dopo la ristrutturazione del 2011 da Triennale Teatro, e stante una capienza quasi dimezzata rispetto alla sala originale, non manca certo lo spazio intorno. Secondo una scheda storica dell’Ordine degli architetti, il teatro misura comunque quasi 600 metri quadrati, e c’è pure quel notevole soffitto bianco che invita ad apprezzare non solo l’altezza: viene tanto comodo da guardare, quando ci si annoia un po’ a tener lo sguardo fisso verso il palcoscenico (1).
Ciò premesso, sciama fuori chiacchierando, venerdì 29 novembre poco prima delle 22, il terzo mezzo migliaio di spettatori richiamati dalla versione teatrale del romanzo premio Nobel ‘La vegetariana’. E forse soprattutto dal nome di Daria Deflorian, che qui è come se ritrovasse il primo dei suoi fans-club, dove tanti la chiamano affettuosamente solo per nome - curiosamente non alla milanese ‘la Daria’, ed è un segno di rispetto.
Fanno subito invidia certe giovani lettrici che s’impegnano lì per lì nella disamina attenta delle varie differenze con il testo originale di Han Kang, a chi non è in grado di provarci basta notare che questo adattamento è stato firmato da Deflorian con Francesca Marciano e la collaborazione del cast intero (ovvero Paolo Musio, Monica Piseddu e Gabriele Portoghese).
Bisognerebbe aver studiato bene il romanzo della fortunata scrittrice sudcoreana, edito in Italia da Adelphi nel 2016, con la traduzione dall’inglese di una bostoniana doc come Milena Zemira Ciccimarra. ‘Peccato che non rientri proprio nel mio genere di letture, tanto quanto questo alla Deflorian, pur rispettabilissimo, non è certo il mio genere di teatro’, spiega a bassa voce un dramaholico ‘triennalista’ doc, poco propenso alla prosa perché ormai abituato alle migliori contaminazioni performative contemporanee.
Deflorian nemmeno poteva immaginare che al già ingombrante titolo s’aggiungesse pure la notizia del premio da Stoccolma, mentre stava da tempo lavorando allo spettacolo che era stato varato con una compagine di rispetto, capofila la sua nuova INDEX, coproduzione guidata da Emilia Romagna Teatro ERT e La Fabbrica dell’Attore del Teatro Vascello con Romaeuropa Festival, con TPE – Teatro Piemonte Europa, Triennale Milano Teatro, Odéon–Théâtre de l'Europe per il Festival d’Automne à Paris e Garonne théâtre -Toulouse; con la collaborazione di ATCL / Spazio Rossellini e dell’Istituto Culturale Coreano in Italia.
Forse qualcuno ha pensato al colpo (pubblicitario) di fortuna ma la moltiplicazione esponenziale della possibilità che gli spettatori entrino in sala con il romanzo bene in testa è più che altro d’inciampo.
Va ricordato, oltretutto, che il libro è stato pubblicato originariamente nel 2007, quasi un mondo e mezzo fa, e Han Kang lo aveva scritto quando era una trentenne, anche se è diventato un grande successo pian piano in una ventina di Paesi, fino a vincere il ‘Man Booker International Prize’ inglese per la sua ‘sbalorditiva miscela di orrore e bellezza’, nel 2016 (ovvero ancora in epoca pre-Covid e pre-guerre).
Giusto per chi non ne sapesse niente, ma anche tutto sommato come valida introduzione allo spettacolo ‘di Daria’, basta riportare la perfetta sinossi redazionale adelphiana per la sesta e più recente edizione.
‘Ho fatto un sogno’ dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l'ideale di un'estatica dissoluzione nell'indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell'ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi’.
La prima notazione del cronista dopo la terza delle richiestissime rappresentazioni in Triennale, con tanto di code per la lista d’attesa, è relativa alla frase di cui sopra evidenziata in corsivo: e cioè che gran parte del pubblico probabilmente resta così toccato dall’inquietante presenza in scena di Monica Piseddu, che poi all’uscita pochi hanno il coraggio di parlarne come invece meriterebbe.
Quel dire piuttosto tanto della bravura di Deflorian che dell’ammirevole prestazione al limite del sacrificio della sua ‘vegetariana’, fa quasi pensare all’autocensura che spesso si manifesta quando tocca d’incontrare per strada una madre alla prese con il dramma dell’anoressia della figlia.
Eppure, qualche spettatore avvertito ripete almeno le giudiziose lodi dei critici più rispettabili, come Gianni Manzella che, dopo la prima a Roma Europa Festival, aveva notato su ‘il manifesto’ quanto ‘il corpo aspro di Monica Piseddu, in una bella prova davvero’ offra l’interpretazione fisica perfetta del personaggio femminile su cui ruota tutto.
Ora, dal romanzo di Han Kang è stato tratto già un film, nel 2010, forse non proprio indovinato, diretto dal coreoano Lim Woo-seong e presentato al Sundance Film Festival, ma poi però ignorato dai vari Grammy, Oscar e via premiando. Se fosse una pellicola hollywoodiana anche questa versione firmata Deflorian, state sicuri che una candidatura per qualche statuetta la nostra povera scheletrica e intensissima Piseddu se la guadagnerebbe. 'Speriamo soltanto', commenta a bassa voce il solito buon-kattivo, 'che alla fine della tournée ricominci almeno a mangiare!'
Va bene, non è che si può scoprire adesso la bravura già nota di Monica Piseddu, tra l’altro applauditissima anche l’altr’anno, nella stessa sala di Triennale Teatro, in una singolare versione di ‘Tre Sorelle’ in cui era in scena quasi da leader con le colleghe Federica Dordei e Arianna Pozzoli (quello spettacolo d’indiscutibile freschezza teatrale era firmato da Muta imago - soci INDEX con Deflorian - e si è poi meritato persino un passaggio in vetrina alla Biennale di Venezia).
E non c’è nemmeno da sorprendersi per la capacità di Piseddu quando deve (s)vestire i panni dei personaggi estremi: ha fatto incetta di premi anche solo per ‘aver inchiodato gli spettatori alla poltrona’ interpretando la morfinomane Veronika Voss in ‘Ti regalo la mia morte, Veronika’ di Antonio Latella.
Ma va pur annotato come anche stavolta sia superba, seppur poi molti spettatori risalgano le scale commentando il risveglio finale del mostro attoriale della stessa Deflorian, che si spende, così per chiudere, venendo in primo piano verso il pubblico, mentre la presenza della Piseddu si fa sempre più silenziosa e inquietante sullo sfondo.
In qualità di regista anche di se stessa, Deflorian si sforza di stare decisamente sotto le righe come attrice, e viene ugualmente apprezzata qui a Milano. ‘Certo, quanto poi arriva il monologo di Daria…si sa, niente da dire’, sussurra una che si deve essere forse un po’ annoiata nei primi novanta minuti.
Così, tra parentesi, si consuma di nuovo anche un po’ il divorzio tra pubblico e critica, stavolta addirittura con le firme cult francesi, come Lucille Commeaux di ‘Libération’, che ha trovato davvero poco riuscita la parte in cui la storia va invece al compimento e quindi anche il monologo di Daria nel terzo atto.
Per dirla invece con Vincent Bouquet, il direttore editoriale del puntuale portale sceneweb.fr, tutto questo pur lodevole lavoro di sottrazione di Daria Deflorian, ‘questa finezza di approccio, si trasforma deplorevolmente in troppa cautela, nonostante la sua limpidezza, e rende questo adattamento un po’ laborioso, persino monotono’.
Detto diversamente, come dal fanclub meneghino: hai voglia Daria a non fare un insopportabile melò e restare un po’ in quei binari ‘post-drammatico-style’ che hanno dato al cognome Deflorian un rilievo internazionale per il sodalizio con Antonio Tagliarini (anni di ripetuti successi, da cui peraltro torna il prezioso lavoro sulle luci di Giulia Pastore). Poi inevitabilmente ti becchi una certa perplessità del pubblico, e magari pure inespresso il retro-pensiero crudele alla Bouquet: ‘Daria Deflorian sembra a volte mancare di idee di messa in scena’.
Tradotto in chiacchiere all'uscita dello spettacolo, ‘se la grande trovata finale è tornare davanti agli spettatori plaudenti per deporre sul proscenio le piantine verdi dentro i vasi trasparenti…’. ‘Ah, già, quella proprio non c’entra con il romanzo!’
A qualcuno scatta il relais con ‘il dilemma del sorgo’ relativo al recente adattamento teatrale del romanzo ‘La ferocia’ di Nicola La Gioia, e in effetti lo scenografo è lo stesso di quello spettacolo di VicoQuartoMazzini, Daniele Spanò.
Per ‘La vegetariana’ Spanò ha allestito una sorta di mini appartamento fatiscente e quasi del tutto vuoto, che appare se non il diligente contenitore del caso, quanto meno freddo e in realtà un po’ affettato come l’operazione stessa d’ingabbiare così a teatro - ovvero nel luogo dello sguardo - un romanzo forse troppo d’atmosfere interiori, o chissà troppo fuori contesto.
Va detto infine che ne esce almeno una pièce dalla parte delle donne vittime, sofisticata e sottilmente anti-patriarcale, così che forse giusto Valditara si potrebbe irritare.
Femminismo per femminismo, veniva naturale il confronto con il taglio efficace e pop di ‘Lacrima’ di Caroline Guiela Nguyen, che ha fatto il pieno negli stessi giorni al Piccolo Teatro Strehler, riportando la sala intitolata al fondatore finalmente in linea con il motto storico di ‘teatro d’arte per tutti’.
Ma no, questa è la sala del Teatro dell’arte, veniva da ricordare a chi ne parlava dopo una ‘vegetariana’ che inevitabilmente non poteva essere per tutti.
(1) Alzando gli occhi qua e là prima della scossa finale a tutto-Daria, si poteva scrutare ‘la complessa struttura tecnica del soffitto’. Per poi scoprire, il giorno dopo, navigando in cerca di riferimenti, ‘che funge anche da pavimento per le sale espositive superiori ed è costituita da una piastra quadrata di 14,45 metri di lato, munita di una maglia ortogonale di nervature orientate in diagonale e appesa nei vertici alle briglie di due grandi portali trapezoidali (24 metri di luce) nascosti all’interno di pareti soprastanti’ (così recita la scheda dell’Ordine degli architetti di Milano).
Sempre tra le ricerche post-spettacolo, si scopre che questa sala del Teatro dell’Arte, nell’assetto originale ancor più ampio, da mille posti, ospitò addirittura le prime puntate di ‘Lascia o raddoppia?’, il prototipo dei quiz televisivi di Mike Bongiorno.
Correva l’anno 1955 e in uno spezzone ripescato online si sente il presentatore scusarsi per il cambiamento d’orario e sottolineare quanto l'anticipazione avesse almeno favorito gli spettatori di Carpi, concittadini del ‘campionissimo’ del gioco, ché altrimenti non avrebbero potuto seguire la trasmissione perché impegnati ad assistere ‘a un’importante rappresentazione teatrale’ che non aveva potuto aver luogo il giorno precedente.