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Tra le nuvole del teatro ancestrale di Eugenio Barba, per un singolare Amleto dove spunta anche una nuova Ofelia

Antonia Cioază (Ofelia) ne 'Le nuvole di Amleto' (foto di Francesco Galli)

 Le chiacchiere stanno a zero, come si dice comunemente, di fronte a Eugenio Barba e al nuovo spettacolo dell’Odin Teatret ‘Le nuvole d’Amleto’, andato in scena a Milano in casa del co-produttore Tieffe, ovvero al Teatro Menotti (dove l’anno scorso hanno meritevolmente organizzato anche una settimana di festeggiamenti per la storica tappa dei 60 anni di questa esperienza teatrale straordinaria) .

 Che non ci sia niente da fare ‘pissi-pissi-bau-bau’, aldilà del meravigliarsi, lo toccano con mano gli spettatori, che vengono amorevolmente accompagnati dallo stesso Barba, in eterna divisa da frate Eugenio (sandali ai piedi, semplicissimi jeans e camicia con immacabile gilet), a sedersi intorno alla scena in una sala teatrale smontata e ricostruita con due piccole platee laterali, per assistere al rinnovarsi quasi magico di un rito ancestrale di rappresentazione.

 E lo misurano subito per bene, prima ancora della prima, i giornalisti e gli addetti ai lavori che hanno la possibilità di partecipare alla presentazione della settimana di repliche milanesi, con le geniali e rigorosamente ‘evasive’ risposte del nostro campione mondiale del Terzo Teatro, alle solite domande d’ordine generale e storico, da pseudo-accademici delle varie improbabili discipline dello spettacolo.

 Il teatro e le sue ragioni oggi, la fine del vecchio patto con il pubblico, i grandi cambiamenti dagli anni della Rivoluzione Settanta, quanto dura il training di un attore, persino se Shakespeare è più inglese o latino…Mancavano giusto le interrogazioni sul neo-epico brechtiano e il post-drammatico, forse perché più di cultura germanofona, e appunto le belle chiacchiere sarebbero state tutte esposte.

 Barba è uno che non si scoraggia, ascolta attentamente e quando decide di parlare dà subito le risposte attraverso dei piccoli salti così ficcanti che risolvono tutto. Per esempio, il teatro non è ‘qualcosa’ da ridefinire: la domanda da porsi resta sempre ‘chi’ è il teatro, ovvero ogni spettatore, ciascuno inteso. E l’Odin stesso, confessa Eugenio, ha superato sempre i peggiori momenti, anche gli ultimi, soltanto per quei pochi o tanti, forse cinquanta, spettatori al mondo che lo fanno vivere. 

 Poi magari Barba si perde nel racconto della ragazza cinese che ha conosciuto a Parigi dopo la rappresentazione de ‘Le nuvole di Amleto’ al Théâtre du Soleil, che gli ha riassunto la sua tesi di laurea, frutto di un decennio di passione e inseguimenti dell’Odin da spettatrice, sulla disciplina tecnica degli attori odinisti come forma di ribellione (giacché, peraltro, sotto il regime di Xi si sono registrate proteste di piazza che hanno potuto esprimersi proprio attraverso un rigoroso esercizio di piccoli gesti, come mostrare tutti, allo stesso modo silente, un foglio bianco in mano per evocare criticamente la censura).

 Le chiacchiere stanno a zero anche subito dopo la rappresentazione. Nonostante stavolta si parli addirittura di un testo dei testi, forse il più interpretato e commentato di tutta la storia del teatro, l’Amleto di William Shakespeare: in qualche modo già un macigno di notevole complessità originaria (1), che in questo caso viene preso per giunta dall’inconsueta parte ‘delle nuvole’.

 Questa stessa poi è una scelta davvero ‘naturale’, che previene addirittura tutto il processo di scrittura e allestimento del nuovo spettacolo, dovuta a un autentico grumo di nuvole che si sono addensate intono alla sala della prima riunione, come spiega candidamente lo stesso Barba nel programma in italiano disponibile online https://odinteatret.org/wp-content/uploads/2024/10/PROGRAM-HAMLET-ITALIANO-WEB.pdf). 

 Resta giusto da annotare positivamente qualche nuovo dettaglio, dal momento che Barba stesso ha dichiarato di aver scelto di lavorare in questa ultima fase con particolare attenzione a lasciare aperta la porta alla speranza, nonostante anche a lui personalmente il mondo di oggi faccia soltanto ‘vedere rosso’ (tema di un nuovo spettacolo che ha rinunciato a fare proprio per non contribuire al già ben radicato pessimismo).

 ‘Le nuvole di Amleto’, pur reggendosi sullo straordinario contributo di figure per così storiche dell’Odin, come l’alter-ego nella Fondazione per il Terzo Teatro Julia Varley che fa addirittura la parte di Shakespeare, piuttosto che Else Marie Laukvik (la madre), Rina Skeel (nascosta dentro il fantasma) Ulrik Skeel (l’usurpatore), ma fanno emergere soprattutto la straordinaria presenza di due giovani leve, nei panni dei protagonisti Amleto e Ofelia.

 Sono davvero una bella rivelazione la rumena Antonia Cioază, classe 1999, e il danese Jakob Nielsen, cresciuto nell’Ikarus Stage della cilena Carolina Pizzarro, attrice e formatrice di prim’ordine nata nella stessa famiglia dell’Odin. 

 Antonia e Jacob fanno parte della compagnia del Teatret di Barba proprio dal 2022, l’anno in cui si è consumata la separazione dal Nordisk Teaterlaboratorium e hanno già avuto modo di impegnarsi insieme in uno spettacolo, costruito da Sergio Bustric per il pubblico dei più piccoli, ‘The Thrilling Violinists’, che è stato allestito nel ’24 a Lecce per la Conferenza internazionale sui 60 anni dell’Odin.

 In qualche modo s’intravede l’alchimia tra i due cementata da quest’esperienza, che ha poi avuto come titolo italiano ‘I violinisti stregoni’. E i violini di Antonia e Jacob sono tra i pochi oggetti chiave de ‘Le nuvole di Amleto’. 

 Giusto per rubare un’osservazione intelligente alla solita vicina, è singolare peraltro come Barba si sia per così dire ‘allargato’ su Ofelia, figura che stavolta diventa davvero bella centrale (attenzione, spoiler! basti dire che è lei che, quasi scherzando, butta lì ‘To be or not to be’), in questa versione dell’Amleto che pure vede in scena lo stesso autore. Uno Shakespeare, peraltro, dilaniato tra l’esigenza teatrale di spingere il suo protagonista alla vendetta e quella morale di non fare del suo defunto figlio Hamnet ‘un giovane senza futuro’, per stare alla dedica del sottotitolo, ma di onorarne la memoria con l’arte delle sue parole.

 Detto questo, ‘il resto è silenzio’: anche se la celeberrima chiusa, in questo nuovo caso ‘odinista’ viene sostituita dall’invocazione della benevolenza e del favore del pubblico. Che non mancherà di certo nemmeno al prossimo giro, dopo l’ultima rappresentazione milanese dell’11 maggio, quando ‘Le nuvole di Amleto’ occuperà la sala principale dell’Arena del Sole a Bologna, ovvero da giovedì 14 a domenica 18.  

Da sinistra Julia Varley, Antonia Cioază e Jacob Nielsen (Amleto) nel nuovo spettacolo dell'Odin teatret (foto Francesco Galli)


DALLE NOTE DI REGIA DI EUGENIO BARBA

(1) Hamnet e Hamlet (Amleto) erano nomi intercambiabili in Inghilterra nei registri di fine sedicesimo e inizi del diciassettesimo secolo. Shakespeare aveva battezzato suo figlio Hamnet/Hamlet con il nome di un amico, suo vicino di casa a Stratford. Nel 1596 Hamnet/Hamlet muore all’età di undici anni nella casa di Henley Street. Intorno al suo capezzale la madre, le sue due sorelle e i nonni paterni pensano al padre distante, a Londra, dove vive stabilmente guadagnandosi il pane come attore e scrittore di drammi.

 Come gli spiegheranno l’improvvisa malattia e il decesso del figlio? Cinque anni più tardi, nel 1601, Shakespeare perde suo padre. Ora è l’unico a portare il nome che scomparirà con lui. Durante il periodo di lutto scrive La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca. Rielabora un testo esistente (oggi perduto) in cui aveva recitato nella sua gioventù il ruolo del fantasma. La storia di Amleto era stata narrata dal francese François de Belleforest che, a sua volta l’aveva presa da una cronica medioevale in latino del danese Saxo Gramaticus. Un racconto di assassinio e vendetta all’epoca pre-cristiana dei vichinghi in cui era dovere del figlio uccidere l’assassino del padre.

 Nell’Amleto di Saxo Gramaticus così come nel racconto di Belleforest non ci sono spettri. Non ce n’era bisogno perché l’assassinio era dominio pubblico, proprio come l’obbligo di vendicarsi. Shakespeare trasforma l’omicidio in un segreto. Da qui l’arrivo del fantasma, deus ex machina, che racconta come sia stato ucciso. La prima versione del testo di Amleto fu pubblicata in quarto nel 1603 e l’ultima in folio nel 1623 dopo la sua morte. La versione finale del folio è più lunga e più completa di quella del quarto. Include più scene e circa 600 nuove parole inglesi con sette lunghi monologhi che non sono azione ma riflessioni interiori. Oggi lo sappiamo bene: il monologo è una tecnica dei personaggi per trasmettere allo spettatore quello che sta succedendo dentro di loro. Il quarto del 1603 è la metà del testo del folio del 1623, circa 2.000 versi – ovvero due ore di recitazione, la durata abituale di uno spettacolo. È sicuramente la versione utilizzata dagli attori per la rappresentazione al Globe. La versione del folio comporta più di 4.000 versi, ben quattro ore di rappresentazione, impossibile per quel tempo. I soliloqui aggiunti all’ultima versione in folio sono “letteratura” pensata e aggiunta da Shakespeare per i lettori che compreranno le sue opere come libri.

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