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09.10.2024
Quando l'entusiasta presta orecchio all'iper-critica sui nuovi formalismi: da Ronconi 75 a 'One Song' via 'Peng'
Un pomeriggio d’inizio giugno a Milano numerosi spettatori appassionati e addetti ai lavori del teatro si sono trovati al Palazzo del Cinema dell’Anteo per assistere alla proiezione del film documentario ’75 – Biennale Ronconi Venezia’, ricostruzione molto affettuosa e di parte, fin dal titolo, di una manifestazione chiave degli anni Settanta. L'appuntamento, presentato meritoriamente in due proiezioni gratuite dal direttore del Piccolo Claudio Longhi, si doveva tenere nella più piccola sala Rubino, ma viste le prenotazioni è stato spostato nella sala Astra, dal cui nome poi nasce la suggestione di far dipartire questa curiosa sequenza di concatenazioni.
La Biennale del 1975, seconda delle tre dirette da Luca Ronconi, vide per la prima volta riuniti tutti insieme a Venezia i leader della rivoluzione del ‘teatro povero’, in primis il guru Jerzy Grotowski, i post-hippies americani del Living Theatre, Meredith Monk, Eugenio Barba, Ariane Mnouchkine e via elencando, insieme a quei nuovi maestri che si stavano affermando nel teatro tradizionale portando forme di linguaggio inedite, come Bob Wilson e Peter Brook.
Pare di capire che il primo Ronconi, anche grazie alle suggestioni dell’amico ‘professore’ Franco Quadri, cantore dei rivoluzionari, provava a collocarsi ammirevolmente a cavallo tra i due fronti (e il cavallo in questo caso propriamente sta, per via delle grandi riproduzioni lignee equine semoventi di un suo celebre ‘Orlando Furioso’, con le scene che erano spacchettate in tanti blocchi e sparse in mezzo al pubblico: le grandi macchine teatrali sul palcoscenico arriveranno subito dopo, dal ’76).
Quella folle, indimenticabile e rivoluzionaria Biennale 75 fu anche, se non soprattutto, una sorta d’interminabile assemblea-happening. Alla fine - anche se di questo il film documentario di Jacopo Quadri non arriva a parlare - si ritrovarono tutti a discutere con franchezza, da pari a pari, come si usava un tempo, in un convegno a Mirano, dove gli intellettuali di complemento si affiancarono ai guru e ai registi per cercare di tracciare l’impossibile sintesi.
Nei libri di storia è citato, per esempio, un intervento del raffinato critico Ferdinando Taviani che, con simpatizzante strabismo tra Grotowski e Brook, ma con il pensiero anche al nostro teatro, provò a mettere insieme le posizioni dal punto di vista del pubblico, a quel tempo segnato anche dalla presenza attiva di militanti e appassionati.
‘Esiste un teatro buono, cioè che accettiamo e in cui ci riconosciamo, ed è il teatro che ‘parla’ politica, che ‘parla’ società; ed esiste un teatro che non accettiamo e in cui non ci riconosciamo, ed è un teatro che non parla di queste cose(…).Poi dobbiamo riconoscere che esiste tutto un altro tipo di teatro che non si giudica in base a ciò di cui parla(…) ed è un teatro che fa politica(…)’
Ecco, i puntini tra parentesi nella citazione da Taviani-Merano-post-Biennale75, da soli bastano ad attualizzare il riferimento al ‘terzo teatro’, come lo chiama Barba, un grande movimento politico e culturale a cui purtroppo oggi non ci si degna quasi più di fare caso.
D'altro canto la lezione dei guru rivoluzionari di allora si è fatta addirittura canone nel teatro tradizionale e ci sono persino nuovi esponenti del teatro neo-neo-realista che volentieri pescano dal teatro militante i protagonisti da portare in scena (per fare un solo esempio, Christiane Jatahy nell’ultimo spettacolo).
Il caso dell’8 giugno milanese ha voluto che più di uno tra gli spettatori del documentario si siano ritrovati due ore dopo al teatro Strehler tra il pubblico, prevalentemente giovanile ed entusiasta, della performance ‘One Song’ di Miet Warlop, quarta parte dell’ambiziosa ‘Histoire’s du théâtre’ che Milo Rau ha voluto imbastire da Gent in questi anni, e che dovrebbe proseguire nonostante il trasferimento di Rau a Vienna.
Viene facile tornare così alla suggestione di Taviani sul teatro buono, cattivo e rivoluzionario. Basta guardarsi intorno durante ‘One Song’. Molti sono i millennials che si fanno tirare subito dentro il ritmo ipnotico dell’esibizione tra concerto rock e allenamento in palestra.
E' il secondo giorno di rappresentazione e il passaparola ha funzionato a dovere: pescando a caso, la trentacinquenne opinion-leader teatrale faceva girare sulle conversazioni social il giudizio-invito: ‘è una bomba, merita davvero’.
Tanti nativi digitali hanno sempre un po’ più bisogno di tempo per staccare dai social e dalle chiacchiere, ma presto s’incantano; tra un gruppo di ragazzi con l’aria un po’ nerd, in fila G a sinistra, si notano alcune ragazze che compulsano anche il foglietto con il testo della canzone messa in scena, che è poi un canto della nostalgia lancinante e del sentirsi sempre a pezzi dopo la perdita di un fratello.
A fronte di tanto entusiasmo ci sono poi inevitabilmente quei tre-quattro spettatori più in là con gli anni che si alzano a metà, perché appunto non si riconoscono in un teatro performativo di cui non decifrano i riferimenti, non capiscono se 'parla' e che cosa dice lo spettacolo.
E’ interessante, in particolare, riuscire a intercettare qualche spettatore boomer o dintorni, dichiarato amante del teatro ronconiano che fu, ovviamente dunque tradizionalmente legato alla forza di un ‘testo’.
S’intuisce così un’altra obiezione di fondo verso quest’ultima versione della perfomance da teatro post-drammatico: le intriganti costruzioni generazionali come quella presentata da Warlop, piuttosto che da altri autori e registi che non erano nemmeno nati ai tempi di Biennale 75, appaiono sempre così accurate quanto fintamente trasandate, e in qualche modo troppo artefatte (per esempio, il processo di rappresentazione stessa viene portato in apparenza).
Semplificando, borbotta risalendo lo scalone dello Strehler una spettatrice competente e molto bene informata, più o meno dell’età di mezzo: ‘non a caso questi sono gli spettacoli che piacciono a quei ‘cazzoni’ di critici newyorchesi, che si rompono le scatole tutto l’anno a dormicchiare in poltrona di fronte ai soliti copioni recitati con la solita retorica e fanno festa per forza, quando invece di un brutto Shakespeare tirato tre ore a Londra, vanno a Gent o ad Avignone per vedere un bel caravanserraglio del genere di 55 minuti’.
Ha una quota parte di ragioni, senza dubbio, chi sottolinea polemicamente il rischio che, con questo genere di teatro performativo e in qualche modo post-realista, si stia ripiombando in una sorta di nuovo formalismo: eppure, non solo a Milano, questo tipo di spettacoli piace molto proprio al pubblico che fatica ad accettare il teatro tradizionale ‘buono’.
E’ un’obiezione che fa riflettere ancor più dopo aver visto ‘Ronconi 75’ e riscoperto l’origine così ‘rivoluzionaria’ di un protagonista che anni dopo è sembrato a molti ingombrante come le sue celebri macchine teatrali, restando un lucidissimo intellettuale egemonico gramsciano, ma diventando in qualche modo scolastico, anche rispetto a se stesso, un’istituzione-persona, tanto quanto il maestro Giorgio Strehler (detto senza nemmeno mettere in discussione due talenti così fuori dal comune).
Comunque si vogliano giudicare, di ‘buono’ davvero c’è poi che i grandi registi, di ieri e di oggi, lasciano un segno indelebile sugli attori, e questo agli occhi degli spettatori vale forse ancor di più. E, come suggerisce quest’insolita congiuzione Astra(le) tra Ronconi e Milo Rau, via Longhi e Miet Warlop, con un piccolo passo indietro s’incastra il terzo tassello di questo ‘passaparola’.
In questi stessi giorni, a Milano, più di uno degli spettatori entusiasti di ‘One Song’ sono passati anche all’Elfo Puccini per applaudire Fausto Cabra nei panni, impossibili, di un bambino-mostro, ‘Peng’. E’ un testo di oggi del ’teatro buono’, per stare alle categorie di Taviani, scritto dal tedesco Marius Von Mayenburg nel 2017 e firmato, nella versione italiana, da Giacomo Bisordi, che lavora accanto a Milo Rau da alcuni anni e firma anche ‘One Song’ come drammaturgo.
Gli spettatori più appassionati ricordano Cabra come il quinto dei Lehman, accanto a quattro interpreti del livello di Massimo De Francovich, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon e Massimo Popolizio, nella seconda parte di quella Trilogy che è stato l’ultimo spettacolo postumo di Luca Ronconi, il suo addio perfetto, di alto livello sia estetico sia etico e politico, così aderente al presente.
Alla perfetta riuscita di 'Lehman Trilogy' hanno contribuito il testo che ha consacrato autore di rango internazionale Stefano Massini e ancor più l’impegno straordinario dei migliori attori ronconiani, desiderosi di rendere al maestro un riconoscente omaggio.
C’è da dire, tornando a ‘Peng’, che questo spettacolo su un personaggio che sarebbe l’odioso infante alla Donald Trump, arrogante maschilista e populista, non si regge soltanto sulla bravura dell’ultimo degli interpreti ronconiani, Cabra appunto, ma sull’intera compagnia degli attori ingaggiata dal Teatro del Vascello, che dà un’ottima prova (Sara Borsarelli, Anna Chiara Colombo, Gianluigi Fogacci, Francesco Giordano e Giuseppe Sartori).
E fa una certa impressione notare come l’impronta internazionale si veda subito da un certo understatement nella recitazione, anche dei personaggi più caricaturali: del resto se hai la fortuna di lavorare accanto a Rau, vedendolo provare con Ursina Lardi per ‘Everywoman’ o Sara de Boscherre per l’imminente ‘Antigone in Amazzonia’, come capita a Bisordi, non è che poi non pretendi il massimo, giorno dopo giorno, dalla compagnia dello spettacolo che firmi in prima persona come regista.
Per tornare al tema principale, ‘Peng’ è uno spettacolo che fa molto discutere il pubblico tradizionale del teatro ‘buono’, più di uno lo ritiene eccessivo: del resto, l’autore di questo testo grottesco, Von Mayenburg, sostiene che ‘il teatro dovrebbe essere un luogo in cui non sentirsi al sicuro’. Già.