

Grazie D'Agostin per le generose presentazioni, ma più che la Prima e l'Asteroide dovresti temere il tuo entusiasmo da spoiler!
29.05.2025
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La brillante e strampalata compagnia de ‘Il Vertice’, caricate le quattro carabattole di legno e cartone della scena su un camion, è ripartita dal Piccolo Teatro Strehler di Milano diretta a Losanna. E finalmente, senza timore di rovinare lo spettacolo a nessuno, si può riparlare seriamente del nuovo lavoro Christoph Marthaler.
Se ne è già accennato, ma ci sarebbe ancora tanto da dire, in attesa di verificare come sarà accolto questo piccolo capolavoro nella casa madre del Théâtre Vidy-Lausanne, dove sarà in scena dal 15 maggio per una decina di giorni. Forte non solo del primo rodaggio milanese ma anche del confronto con un pubblico abituato alle proposte più sofisticate, e anche già ad applaudire il lavoro del genio creativo di Erlenbach (Zurigo), che peraltro si mostra sempre così legato alla ‘sua’ Svizzera.
Ancor più interessanti saranno poi soprattutto le reazioni degli spettatori appassionati, dei critici e degli addetti ai lavori di tutta Europa, e non solo, che non mancheranno l’inconsueto appuntamento con Marthaler al prossimo Festival d’Avignon (12-17 luglio).
Come si è detto, una parte del pubblico della prima milanese, con la nomenklatura culturale e teatrale a occupare le file centrali, non sembra aver inteso così compiutamente questo Vertice di puro marthalerismo storico, ovvero di un teatro-teatro molto personale, e sempre anche autobiografico, assolutamente unico nella forma e nel linguaggio.
Ed è proprio da qui che conviene ripartire per capirci qualcosa: missione disperante perché dietro all’apparente sgangheratezza s’intravede una meticolosa cura dei dettagli e soprattutto perché, nonostante la dilatazione e quasi nullificazione del racconto, la mescolanza di picchi intellettuali veramente cult con improvvise accelerazioni verso la slapstick-comedy toglie proprio il tempo di ragionare allo spettatore.
Uno spettacolo del genere non nasce solo dalla testa di un creatore-tutta-testa, un autentico intellettuale completo delle scene europee, che pure non guarda dall’alto in basso nemmeno l’ultimo macchinista, considerando il teatro un prodotto collettivo.
Un ruolo chiave lo svolgono ovviamente i primi interlocutori di Marthaler, il suo dramaturg post-Duemila Malte Ubenauf, in questo caso con la collaborazione di Eric Vautrin - che sovrintende alle drammaturgie per lo stesso Vidy-Lausanne - e pure l’intero cast degli attori stessi (dei curricula e delle idee dei quali tutti, vedi i dettagli nel fondamentale libretto di sala).
Non a caso, al netto dell’ottima Federica Fracassi (punta di diamante delle ultime operazioni cult del Piccolo), gli attori sono tutti già integralmente parte della stessa prestigiosa famiglia svizzera, e si conoscono bene per aver già lavorato insieme sul palcoscenico: la giovane italiana Liliana Benini, che ha avuto la fortuna d’incontrare Marthaler dieci anni fa; la straordinaria francese Charlotte Clamens, attrice stracult che non ha mai sbagliato un lavoro, sempre in scena alle più prestigiose rassegne d’Europa; due campioni musical-teatrali marthaleriani, come Raphael Clamer e lo strepitoso quasi clone del regista-autore Graham F. Valentine; e infine l’altro giovane, il fisarmonicista Lukas Metzenbauer.
Si dà il caso che Marthaler, in questa fase più che matura della sua carriera (è nato nel 1971 e ormai da una trentina d’anni è considerato un maestro, soprattutto nell’Europa germanofona), parli fatalmente in prima battuta di se stesso, della sua vita e del suo lavoro. Lo hanno fatto e lo fanno tutti i creatori, ed è inevitabile che sia così, è il ‘mondo vitale’ stesso dei teatranti che a un certo punto va apertamente in scena.
Aveva ben esplicitato di essersi spinto in questa direzione, Marthaler, già nel primo ‘divertissment’ presentato dopo i lockdown da Covid (a Milano in Triennale Teatro nel 2022), intitolato ‘Aucune idée’ e dedicato al racconto del legame ormai quarantennale con il ‘suo’ Keaton d’origine scozzese, quel Graham F. Valentine che non a caso anche ne ‘Il Vertice’ è davvero sublime.
Soltanto che ‘Aucune idée’ era davvero un classico iper-testo alla Marthaler, con riferimenti e citazione a iosa, da Henri Michaux a Wagner (anche in musica, con il violista Marte Zeller in scena), dichiaratamente privo però di un’apparente idea portante e dunque anche di maggiore difficoltà, così indecifrabile e irriverente da poter sembrare urticante.
(Oddio, avendo un certo acume culturale si possono decifrare molte delle svariate citazioni presenti anche ne 'Il Vertice', per esempio qualche verso di grandi poeti nascosto nelle dediche del libro di vetta, come ha fatto Gianni Manzella su 'il manifesto')
Subito dopo il personalissimo brogliaccio d'autore di 'Aucune idée', nel 2023 Marthaler si è dedicato ad allestire un clamoroso e provocatorio ‘Falstaff’ per il Festival di Salisburgo, dove si è voluto mettere di nuovo in gioco.
Lo spiega subito bene la lunga disamina pubblicata sul sito svizzero 'Wanderer' da uno dei fondatori-animatori di queste raffinate discussioni culturali, il musicologo Guy Cherqui: 'Christoph Marthaler, il grande regista svizzero, poeta e musicista, conosce a fondo il suo Falstaff e ha aspettato la fine della sua carriera (ha 72 anni, nel 2023 ndr) per metterlo in scena, per mettere in scena il capolavoro della fine, quasi come per mettere in scena se stesso.
E per farlo si serve di uno strumento, di un riferimento, di un maestro della 'burla' (farsa) Orson Welles, l'uomo che guarda il mondo, lo prende in giro, guarda se stesso nel mondo, guarda se stesso in scena, mette in scena se stesso come Falstaff… È infatti il fantasma di Welles nella sua corazza panciuta che attraversa il palcoscenico da destra a sinistra e che, seduto a sinistra, dice alla fine 'Tutti gabbati', vi ho fregato tutti, vi ho fregato tutti… in francese ‘il nous a mis en boite’.
Ovviamente, Cherqui a parte, non è che sia filato via così liscio, questo ‘Falstaff vertiginoso’ (titolo della recensione di wandersite.com). Sempre nella stessa sede aperta online è intervenuto a spiegare l'operazione l'Intendent del Festival, Markus Hinterhäuser.
‘Ci sono state tante critiche… tante discussioni attorno a questo Falstaff. È la questione della percezione dell’opera, molto, più difficile che la percezione dei concerti di musica sinfonica o da camera… Nel Teatro ci sono delle aspettative che sono cosi rigide, che quando un grandissimo artista va sotto o contro queste aspettative c’è una confusione enorme’.
Vale la pena di spezzare la citazione di Hinterhäuser, uno che nella sua gestione ormai decennale di Salisburgo non ha rinunciato mai ad alzare il tiro, anche teatrale (questa prossima estate, per esempio, ha voluto il nuovo guru del teatro cecoslovacco, Dušan Pařízek, per riportare in scena con Burgtheater di Vienna ’Gli ultimi giorni dell’umanità’ di Karl Kraus in una versione ‘di disturbante attualità’).
‘Tanto per parlare di confusione e di caso’ - continuava il direttore di Salisburgo in difesa del ‘vertiginoso Falstaff’ del ’23 - alla fine del secondo atto del nostro Falstaff c’è uno caos totale, totale, tutto si sbriciola, si da l’impressione che non c’è più regia, che Marthaler abbandona tutto nella totale anarchia… chiaramente tutto elaborato minuziosamente! Anche da parte di Marthaler in questo spettacolo c’è una generosità tale che tutti devono aprire gli occhi e le orecchie perché da sempre ho avuto l’impressione che Falstaff potrebbe essere un pezzo per Marthaler… Da anni avevo quest’idea del Falstaff con lui, c’è voluto del tempo, ma per me è una cosa riuscita ad un altissimo livello artistico, riflessivo, intellettuale’.
Attenzione, perché alla fine di questa stessa intervista su 'Falstaff', il nostro Hinterhäuser - un autentico musicista e intellettuale prestato al lavoro di manager, come l'altro geniaccio concreto di questa compagnia di amici di Marthaler, Peter Paul Kainrath dei Klangforum - ha in pratica tracciato quasi il tema de ‘Il Vertice’, rispondendo alla domanda sulla crisi dell’opera.
‘Noi siamo in crisi, noi, noi. Ci sono molti simposi sulla crisi dell’opera, e della musica classica, ma la crisi siamo noi. Un’opera, un quintetto di Schubert, una sinfonia di Mahler descrivono una crisi. Nella Nona di Mahler, l’ultimo pezzo, l’adagio descrive una crisi dove tutto si sfascia, la sua crisi, la sua morte, da l’addio, da l’addio alla tonalità, l’addio alla sinfonia e l’addio a tutto un impero asburgico che sparisce. C’è una tale malinconia! Ma questo è la descrizione di una crisi, ma non è la crisi stessa’.
Ecco fermiamoci bene su quel ‘Noi siamo in crisi, noi, noi’ di Hinterhäuser, con tanto chiosa finale chissà quante volte condivisa con Marthaler e Kainrath: ‘Noi siamo in una crisi molto profonda, molto paurosa in un certo senso…’.
‘Il Vertice’ ha la pretesa di alludere in qualche modo alla realtà politica del presente, sì, ma ha soprattutto la spietatezza di mostrare come uno specchio al pubblico la profonda crisi d’identità e di cultura della grande borghesia europea oggi, di quello stesso mondo che i populisti disprezzano perché quintessenza del socialmente elitario.
E stavolta Marthaler lo fa in modo ancor più diretto che nella commedia musicale 'Wachs oder Wirklichkeit', che ha allestito con l'Ensemble del Volksbühne a Berlino nel marzo di quest'anno, un delizioso e folle gioco tra realtà e finzione, con tante statue di cera in scena, dove gli stessi protagonisti rappresentati allo stato solido non sanno nemmeno più quasi chi sono e che cosa vogliono fare.
'Il Vertice' è decisamente e direttamente il racconto che Marthaler fa a se stesso, con amarezza e lucidità, del mondo vitale in declino all’interno del quale s’è ritrovato. C'è persino una battuta di luogo, sull'Austria come le Hawaii, che lo esplicita.
In fondo, i protagonisti in scena potrebbero essere i classici frequentatori dei Festival di Salisburgo. La cima che soffre, di cui alla fine si vorrebbero pure prendere cura, non è solo un'allusione alla catastrofe ecologica: è forse quel che resta di quel mondo culturale che fu altissimo e gelido.
Quel che nell’aria è venuto a mancare, alla fine, potrebbe essere il soffio vitale del respiro del teatro stesso, della musica e dell’arte, che di certo non si potrà aspirare a pieni polmoni da quegli estintori gonfiabili di plastica, metafora perfetta del genere d’intrattenimento fasullo tanto in voga, purtroppo, anche nei nostri cartelloni.
Un’ultima nota, a proposito del direttore artistico del Piccolo Claudio Longhi che per questo nuovo Marthaler ha meritevolmente scelto di entrare in partneriato teatrale con Vidy-Lausanne e gli altrettanto raffinati parigini della casa della cultura MC93 de Bobigny.
In definitiva la produzione de 'Il Vertice' fa il paio esatto con la sfida di voler offrire, a inizio 2025, la lunga ‘tenitura’ di quasi un mese al nuovo ‘Zorro’ in italiano di Antonio Latella, una pièce anch’essa diversamente provocatoria, borghese-antiborghese e ancor più esplicitamente beckettiana.
Verrebbe da chiedersi, nel caso di queste scelte editoriali di Longhi, quanta autobiografia è entrata in gioco, proprio come per Marthaler quanto ha pesato la crisi di rigetto nei confronti dei ricchi borghesi europei da Festival e per Latella invece la saturazione nei confronti degli attori di mestiere, che si è tramutata in passione per i veri teatranti-clochard.
E, ancora, se addirittura si può leggere dentro queste due scelte di programmazione quasi un messaggio disperato che Longhi ha lanciato più o meno coscientemente.
Del resto, per un Professore cresciuto nell’intellighenzia cult che fu comunista, tra Claudio Meldolesi e Luca Ronconi, non deve essere affatto facile dover confrontarsi sulle scelte di programmazione teatrale con un Consiglio d'amministrazione dove spicca il figlio di Ignazio La Russa, Geronimo, presidente dell'Automobil Club, e spiegare magari che Marthaler o Latella - o i belgi di F.C.Bergman in arrivo a fine mese - non sono così ‘pericolosi’ politicamente come il Pascal Rambert di ‘Durante’…
A giudicare dal pedigree ronconiano e dal curriculum come regista, Longhi non sembrerebbe propriamente un appassionato di questo teatro per così dire ‘intellettual-grottesco’, genere che peraltro è più facilmente frequentato nel mondo tedesco.
Eppure qualche spettatore appassionato ricorda bene soprattutto una sua prova, tra le più ardue (3 ore e 45 minuti) e ovviamente le meno apprezzate o premiate, nonostante uno straordinario Fausto Russo Alesi: s'intende un notevole e complesso allestimento de ‘La commedia della vanità’, testo poco frequentato e singolarmente distopico del grande Elias Canetti, messo in scena da Longhi nel 2019, quando era ancora il direttore di ERT.
Ecco, senza volersi impancare a psicoanalisti d’accatto, si può presumere che per Longhi quell’esperienza del 2019 sia stata il trauma prodromico all'impatto da direttore con quel pubblico teatrale residuale -, per giunta poi stremato dalla pausa forzata del Covid e dai primi miserelli spettacoli post-pandemici - di cui la borghesia milanese agée abbarbicata al Piccolo è quasi l'esempio per eccellenza, 'pubblico' ormai ben poco pubblico ma soltanto vecchia élite.
In ogni caso, che abbia voluto intenzionalmente farlo o meno, Longhi va ringraziato per ‘Il Vertice’ di Marhaler, uno spettacolo così straordinario, pregevole e apprezzato dagli intenditori - vedi, per esempio, la nota critica di Nicola Arrigoni (1) -, che risponde alla domanda fondamentale sulla crisi dell’Europa e pure su quella del teatro.
Ecco, la vera crisi siamo noi, solo noi, tutti noi spettatori più o meno borghesi, magari di gusti un tempo raffinati, e oggi soltanto distratti.
(1) UNA RECENSIONE DEGNA DI NOTA
di Nicola Arrigoni sulla rivista online Sipario
In tedesco, vertice si dice Gipfel, parola che designa la cima di una montagna, un meeting politico, ma anche… un croissant. Parole, parole, parole: significanti e significati di incerta reciprocità tengono banco nel bellissimo e poetico Il vertice di Christoph Marthaler. Una baita di montagna, arroccata sulla vetta, al cui centro emerge il cucuzzolo del monte. Da un montacarichi salgono strani individui, vestiti da montanari, forse escursionisti che ad un certo punto indossano abiti da serata ufficiale. Ma che succede in quel rifugio? Si assiste a un vertice politico? si tratta di una riunione di milionari? Come sono arrivati lì? E perché non possono andarsene? Domande senza risposta. Meglio Marthaler lascia le risposte allo sguardo dello spettatore. Ad un certo punto i sei esaminano i documenti raccolti in faldoni e ognuno, nel suo idioma, dà il suo sì o il suo no a quelle che potrebbero essere risoluzioni politiche, senza arrivare a nulla. E così come non c’è soluzione a quel dibattito, non sembra esserci possibilità d’uscita da quell’empasse. Si è raggiunta la vetta della montagna, ma si è anche prigionieri di quel rifugio, si accenna a un terremoto, a un’attesa che durerà anni. Non c’è via d’uscita se non quel montacarichi che all’inizio di tutto ha mostrato la Gioconda di Leonardo. I sei personaggi si parlano senza capirsi, c’è chi intona un canto e chi prega. Stare al vertice vuol dire anche confrontarsi con il limite massimo, dopo di che il nulla o solo la possibilità di discendere. E nel mentre i sei notabili parlano, parlano, si arringa al denaro come unico mezzo di misura della realtà, si leggono i messaggi sul libro degli ospiti del rifugio, frasi spesso senza senso che fanno scorrere il secolo breve, fino ad arrivare agli anni di questo XXI secolo in stallo, vacuo e blaterone. Eppur quel parlare anche senza capirsi, quello stare insieme, condividere uno spazio hanno un loro senso, hanno un loro valore che si compie nell’atto finale, nella consapevolezza che quella vetta ha freddo e di essa è necessario prendersi cura. Allora i sei personaggi decidono di coprirla e il buio cala su quella baita che sa essere mondo, che mostra e fotografa il disorientamento del nostro presente. Ma sembra augurarsi Marthaler che alla fine, pur fra mille incomprensioni, la possibilità di una strategia comune possa esserci. Quel coprire la vetta ha un che di dolce e poetico che rischia di commuovere fino alle lacrime. Marthaler si conferma il genio che è, conferma la potenza del suo teatro fatto di corpo, di musica, di spazi, di sommovimenti evocati o costruiti che chiedono non solo di dare uno scossone all’azione, ma anche alle nostre coscienze. Ciò che va in scena ne Il vertice e ciò che fanno gli attori figurine clownesche e a tratti drammatiche, leggere e impietose nella loro scanzonata solitudine, sono il pensiero, la possibilità di riflettere più che rappresentare la nostra condizione di civiltà al vertice delle conquiste di sapere e di benessere, ma prigioniera di sé stessa. Come i personaggi nella baita – fa presumere il regista – la nostra civiltà è ostaggio involontario di una condizione che non permette, apparentemente, né di salire né di discendere lungo la montagna perché tutte le vie sono interrotte e la cima è stata raggiunta. La soluzione sta nella cooperazione autentica e disinteressata in quel prendersi cura della vetta su cui si abbassano le luci. È il pensiero che Marthaler ci affida, teniamolo da conto e facciamolo germogliare. Viva il teatro, quello vero, quello di pensiero.